
Il dialogo tra Governo, opposizione e sindacati ha oggi un’unica reale motivazione che Giorgia Meloni e i suoi ministri devono rispettare – L’autarchia d’infelice memoria deve essere un triste ricordo. Dalla Sanità alla Scuola, dall’Università al Turismo alla Ricerca, alla Formazione nei conservatori, al Lavoro, all’Accoglienza: I PNRR non bastano, bisogna tornare a pensare e rimboccarsi le maniche
Centrodestra, Cultura, Ministri, Donne, Uomini, politici. Giuste speranze, giuste ambizioni, ma anche presunzioni e pericoli di un “nazionalismo culturale” che nei prossimi decenni contrasterà con l’Unione Europea e l’Occidente.
In questi ultimi anni nel nostro emisfero, la parola cultura è stata lodata, esaltata, abusata in ogni senso, vilipesa, confinata in ambiti accademici necessari e per questo selettivi, che mal si conciliano però con la natura stessa della conoscenza universale, che non può né deve avere confini, ideologie, ma deve nascere dalla sensibilità di ognuno, dall’intuizione, dalla spontaneità, dalla genialità, dagli ideali, dalla voglia costante di conoscenza e di dialogo. Da una guida ispirata di un governo capace di riconoscerne i valori veri (non le stravaganze modaiole delle “linee guida” senza significato alcuno) che la conduca nel mare aperto della nostra storia e sappia aprirla ad altre espressioni culturali che l’immediato futuro italiano già ci propone: Un futuro che non deve avere sapore di autarchia, del “fai da te” in tutti i settori della vita sociale.
La cultura del nostro Paese ha bisogno delle affinità elettive dianzi descritte, affinché la si possa riconquistare, restaurarla, proiettarla verso la concretezza di studi rigorosi, e farla divenire espressione di libertà. Perché la libertà si conquista non con le stravaganze, l’insulsaggine, ma con l’applicazione quotidiana allo studio, al lavoro, come è avvenuto da sempre nella concezione classica fino alla metà del Novecento, ma che trovava ancor prima la sua naturale manifestazione nella creatività, nella natura, così come la si va sempre più riconoscendo: mondo animale e vegetale, compreso. Un’aura felice, viva, non priva di sciocchi pregiudizi, ma che a ben guardarla, si è imposta a braccetto con la scienza, che cultura pura è, nonostante gli ostacoli, ed ha preso il volo verso spazi mai visti prima. Oggi, pensare di innalzare nuove barriere in questa vasta corsia che porterà a superare ogni altro confine della conoscenza è, nell’incoscienza di certi intenti, estremamente pericoloso.
La cultura intesa come “caos universale”, frutto di irrazionalità, potrebbe apparire, una colossale follia. Non lo è. Per tante ragioni: qualunque provvedimento politico si possa adottare pur nella diversità delle idee e delle singole percezioni, merita non poche riflessioni e, forse, anche qualche attenuante. Ma senza esagerare. Adattare la cultura alle esigenze istituzionali è senza dubbio un diritto-dovere; cambiarne le decisioni per adattarle alla ideologia del potere in un periodo dominante è rischioso oltre che drammatico per il benessere di ogni società.
Occorre però precisare che la cultura italiana (e non solo) in questi ultimi cinquant’anni, ha via via assorbito un malessere che ha provocato gravissimi danni; danni che nei prossimi mesi nessun PNRR potrà riparare. E tuttavia anche in campo culturale ai PNRR bisogna ricorrere, perché cultura in ogni parte di questo sofferente pianeta, vuol dire: Sanità, Scuola, Formazione, Lavoro sicuro, Ricerca, Informazione televisiva, Accoglienza dei fratelli migranti, Educazione alla vita, Ambiente, Clima, Fraternità tra i popoli, Condivisione di ciò che si ha. Non pochi diranno: “facile a dirsi…questi sono ideali, la vita di ogni giorno è altra cosa”. Vero. Ma per ridare vita si devono rigenerare gli ideali, non alimentare divisioni, steccati, muri, aggressioni, guerre con armi nucleari e guerre economiche. Si deve ricostruire abbattendo la globalizzazione aggressiva e selettiva per darle il volto di un umanesimo nuovo; tendere la mano alla fraternità, alla condivisione dei beni più elementari, come l’acqua sempre più preziosa, il grano, la farina per avere pane quotidiano, il tepore di una casa che ripari dalle devastazioni climatiche.
I governi potenti se lo mettano bene in mente: bisogna ripartire dal meno peggio. Non c’è più bisogno di galattiche concentrazioni, che assorbono energie ultramiliardarie, di grattacieli che si insinuano tra le nuvole. Ci sono vastissimi spazi nei cinque continenti che attendono di essere trasformate in città dal volto umano, dove si possano elaborare strategie di vita comune, e in cui le persone possano riconoscersi e conoscere realtà diverse. Spazi in cui si possa costruire una nuova realtà e vivere in pace. Utopie? No, possibilità reali.
Ogni ideologia politica improntata al gigantismo, che sia di marca statunitense, russa, sudamericana, cinese, indiana, mediorientale, africana, dovrebbe essere abolita. Parole, queste, che risuonano semplici, come un’omelia pastorale che detti pratiche ragioni di vita. Al contrario, sottintendono pensieri umanitari forti: quasi un preambolo per entrare delicatamente nel mondo politico dell’Italia. Di un’Italia protagonista di una crisi morale (che si avverte anche in Europa e nel mondo) ed economico-finanziaria profonda, disgregante, ma che se ben risanata, potrebbe godere di quel benessere che la natura le ha concesso: una storia infinita, immensa ricchezza archeologica, opere d’arte di straordinaria bellezza, meravigliosi borghi da valorizzare (se ne parla da settant’anni), opere romaniche ancora vive e parlanti di storia da sud a nord; città ricche di opere architettoniche (anfiteatri, teatri, musei), di spiagge, di coste affascinanti e affascinanti montagne di luce, di cieli azzurri. Un paradiso da vivere con senso di benessere.
E tuttavia perché questo nostro amatissimo Paese sia ben governato, occorre che gli italiani per primi, i partiti che li rappresentano, siano capaci di rigenerare se stessi, sentano il bisogno di ridare autorevolezza politica e istituzionale al Parlamento, avvertano il bisogno di ritoccare quegli articoli della Costituzione che chiedono di essere aggiornati; vogliano dare equità al Fisco, affinché sia amico del contribuente e non il “nemico numero uno”; combattere la corruzione dilagante che rende e ingrassa le mafie; ambisca a cancellare quel linguaggio burocratico che rende incomprensibili e contraddittorie le disposizioni legislative e peggio, renda lingua e dialetti, in TV, sempre più volgari.
Si pensi ai decreti, alle disposizioni regionali, comunali, che dovrebbero semplificare la vita dei cittadini: sono così astrusi, che, pensiamo neppure coloro che li formulano siano in grado di comprenderli. Che deve fare il “Governo delle semplificazioni”? Rendere meno onerosi e leggibili gli appalti, abolire i bandi della pubblica amministrazione così come oggi sono concepiti; delle associazioni (oggi volti a far schiantare l’associazionismo); abolire tassativamente gli eccessi di una burocrazia che ha invaso tutti i settori della vita pubblica. Ci vuole un governo che non sia succube anch’esso di questa realtà malata, che abbia la forza, la vivacità intellettuale e l’autorevolezza per cancellare ogni stortura provocata da governi precedenti non sempre all’altezza dei loro compiti istituzionali. Il caos nel frattempo regna in Italia senza che alcuno abbia idea di cosa si debba fare affinché le leggi siano scritte in modo chiaro, comprensibile ad ogni cittadino.
In questo delicato frangente che rischia di prolungarsi mesi o anni, il governo dovrebbe cominciare a discutere seriamente con le forze di opposizione, il Pd, nuovo corso Schneil-Bonaccini, il movimento Cinque Stelle, le forze di sinistra, i sindacati che proprio nei giorni pre pasquali hanno offerto il loro appoggio per affrontare alcuni nodi che ostacolano la stessa vita della maggioranza. Oggi nessuno può assumersi l’onere di affrontare il caos sempre crescente a causa degli avvenimenti che agitano il clima politico internazionale. Recriminare sulle colpe dei singoli protagonisti è un esercizio velleitario, pericoloso e drammatico, da incoscienti. Bisogna togliersi la giacchetta con i simboli d’appartenenza e indossare una pesante tuta da lavoro, che protegga dai prossimi sommovimenti politici agli orizzonti del Pianeta. In questo clima di totale incertezza mascherato dalle “soddisfazione europee” della Premier Giorgia Meloni, bisogna salvaguardare ciò che si può salvare. Maggiormente colpite sono le persone anziane a cui nessuno pensa, perché da decine di anni si esalta il futuro dei giovani, mentre i “vecchi” sono abbandonati a se stessi, perché il loro futuro non ha certezze temporali. Al problema anziani si abbina inevitabilmente il tema del Volontariato, istituzione associativa importante sul piano sociale, ma che non può pesare soltanto sullo spirito di abnegazione dei volontari.
E veniamo allo stato dell’Arte. La formazione della cultura teatrale e musicale nel nostro Paese: l’Italia in questi ultimi quarant’anni ha perduto credibilità. Finiti gli anni d’oro, in cui i soldi nei teatri si sprecavano con megagalattiche scenografie, che glorificavano registi di grande valore artistico; finite le grandi tournées degli Anni 90 all’estero alla ricerca di ingenti somme per finanziare le Fondazioni teatrali, finita l’epoca dei grandi cantanti lirici italiani, ultimi eredi di una gloriosa tradizione melodrammatica, sono rimasti molti buchi e una indescrivibile povertà di idee, mentre le altre nazioni (non soltanto europee) più equilibrate continuano ad operare ed a sperare che l’Opera italiana non sparisca o resti soltanto sugli schermi della Tv di Stato, con scenografie frutto della “creatività algoritmica” che avvilisce artisti e telespettatori.
Si riaprano i teatri (si programmino con cautela le stagioni onde evitare nuovi vuoti economici) e si pensi ad una Controrivoluzione che inevitabilmente dovrà riguardare la formazione della musica e, in primis, quella dei conservatori italiani, ormai “malati cronici” che hanno bisogno di nuovo plasma per rivitalizzarne l’esistenza. Ed è ora che si faccia appello al Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara e al Ministro della Cultura, Gennaro San Giuliano, affinché pongano fine alla “storica rivalità” dei due dicasteri e restituiscano sana identità pre riforma ai conservatori, nei quali si è costruita la grande musica italiana, lirica e sinfonica. La riforma del 1997, che ha dato dignità universitaria ai conservatori, nella realtà ha creato una serie di incomprensibili, gravi disfunzioni formative e amministrative: a) I conservatori sono stati trasformati sostanzialmente in licei con triennio di 1° livello e biennio di 2° livello, terminati i quali si consegue la laurea magistrale (molte le materie di studio umanistiche e scientifiche e soltanto 4 ore settimanali di studio musicale (canto o strumenti). b) ci sono le AFAM (Alta Formazione Artistica e Musicale) che rilasciano anch’essi titoli equipollenti alla laurea.
Questa riforma dell’istruzione musicale italiana ha volutamente ignorato che nelle Università ci sono soltanto i DAMS che forniscono una solida e approfondita conoscenza storico-culturale e teorico-metodologica sulle arti visive, sul cinema e i media, sulla musica, sul teatro e la danza, ma la riforma non prevede che si possano istituire facoltà in cui il Canto Lirico e la Musica strumentale possano essere perfezionate tecnicamente, nella concezione interpretativa post conservatorio.
Perché in molte università europee, negli Usa e in Corea, Cina, Giappone queste materie si studiano all’Università e in Italia no? E perché se si vuol fare il dottorato in musica, si deve andare all’estero, magari in Polonia o in Germania?
Questa grave lacuna, dovrebbe sollecitare l’attenzione dei ministri Valditara e Sangiuliano. L’appello ai due politici è da rinnovare perché le sorti della formazione musicale, nostra gloria e vanto, si sta degradando pericolosamente. Se ne accorgono anche gli studenti stranieri, soprattutto cantanti, che si iscrivono nei conservatori e dopo due/tre mesi si rendono conto che le loro aspettative vengono deluse. Con una conseguenza gravissima: che gli studenti stranieri più facoltosi vanno a studiare a Vienna, Salisburgo, Londra, Berlino, New York; gli altri arrivano in Italia, ma si arrendono all’evidenza dello studio meno rigoroso. La medesima situazione si riflette nella Ricerca scientifica. I giovani ricercatori sono pagati poco rispetto al costo della vita della città in cui la ricerca si può praticare e quindi preferiscono volare all’estero: Londra, New York, Berlino, Paesi scandinavi, Giappone, dove il loro valore viene riconosciuto e apprezzato e gli stipendi consentono di vivere e di studiare.
E che dire della Sanità (ministro Orazio Schillaci), altro punto dolente tutto italiano in cui a fronte del valore e delle eccellenze di medici e infermieri, le strutture e l’organizzazione sanitaria sono da tempo degradate, sotto gli occhi di tutti e della stampa in particolare, che denuncia costantemente la inefficienza della sanità italiana. Molti ambiscono ad aumentare la frattura tra Nord e Sud. Le fratture ci sono già. Saniamole. Nelle grandi città italiane se ci si affida all’assistenza sanitaria nazionale, per un qualsivoglia esame specialistico, passano mesi o si è costretti a inviare il paziente, dati alla mano, a ospedali di città più piccole distanti 100/150 chilometri dai capoluogo. Eppure in Italia si fanno interventi chirurgici straordinari, trapianti che lasciano con il fiato sospeso per la loro difficoltà. Contraddizioni italiane.
La stessa cosa dicasi per ciò che riguarda un esercizio stupido quanto demagogico e includente che riguarda l’Emigrazione (ministro Matteo Piantedosi), sia dal Medio Oriente, quanto dalla martoriata Africa, quotidianamente evocata insieme all’Ucraina da Papa Francesco. Cooperazione internazionale, diatribe tra governo italiano e Ong per le “ricerche e soccorso” nel Mediterraneo. Soltanto dopo mesi il governo comincia a capire che “i migranti servono all’agricoltura italiana”. Il governo si sta svegliando. Se ne accorge adesso che i migranti sono i nuovi braccianti dell’agricoltura? Un concetto ormai strombazzato su ogni emittente televisiva, sostenuto soltanto da un’idea di natura utilitaristica. A proposito: e l’informazione della Tv di Stato? I programmi sovvertiti, ciò che apparteneva a Raiuno (le fiction, per altro di basso livello narrativo, oggi occupano Raitre, che a sua volta langue, fatta eccezione per pochissimi programmi culturali che ancora resistono. E il linguaggio? Non ne parliamo: continua, da anni, nella sua gratuita e stupida volgarità.
E ancora. è per ignoranza politica o per sciocco opportunismo che si parla dei braccianti e si tace di migliaia di studenti stranieri che studiano al Politecnico di Torino, di Milano, nelle università italiane: fior di ragazzi e ragazze che parlano due/tre lingue, frequentano facoltà di ingegneria, legge, medicina, fanno i mediatori culturali (a quattro/cinque euro lorde l’ora), insegnano francese e inglese perché queste sono le loro lingue originali?
Sono loro che devono integrarsi o dovremmo accoglierli a braccia aperte e cancellare quest’espressione (“integrazione”), che al di là del significato italiano, nasconde sfumature razzistiche? Uomini e donne, famiglie che accarezzano con uno sguardo sorridente i loro bambini. Bimbi e bimbe nati in Italia, che cominciano a parlare l’italiano più correttamente dei nostri scolari, ai quali però non viene riconosciuta lo “Ius soli”. E’ questo un senso di umana giustizia?
Tutti i ministri di questo governo, anziché fare esternazioni politiche non pertinenti al giuramento fatto di totale adesione alla Costituzione repubblicana dovrebbero riflettere seriamente sul loro operato. Forse sono gli stessi ministri che, in privato – ci piace crederlo – si commuovono davanti ad un bimbo africano, ucraino o afghano che piange tra le braccia della sua mamma.
Armando Caruso