CULTURAPOLITICA

AUTONOMIA REGIONALE DIFFERENZIATA ? L’ITALIA RISCHIA IL “TURISMO SANITARIO”

By 22/02/2023Febbraio 27th, 2023No Comments

Si pensi al diritto alla Salute, allo Studio, ai diversi costi produttivi delle imprese ed economici delle famiglie – Non si ripeta la sciagurata riforma delle province – Le prime regioni privilegiate sarebbero Lombardia, Veneto, Emilia Romagna – Si paventano venti di recessione

Il dibattito sull’autonomia differenzìata regionale diventa ogni giorno più acceso. Da un lato si pongono tesi a favore della differenziazione territoriale, intesa come spinta allo sviluppo dei territori stessi, dall’altra posizioni di forte critica di un modello che rischia di allontanare sempre di più le aree sviluppate del Paese da quelle meno performanti.
La questione nasce all’indomani della legge costituzionale del 2001 di riforma del titolo V della Costituzione, con la quale si ridisegna la geometria istituzionale della Repubblica ponendo alla base dell’articolazione territoriale i Comuni: l’art. 114 prevede oggi che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane , dalle Regioni e dallo Stato”. In applicazione del principio di sussidiarietà, di derivazione comunitaria, il nostro ordinamento rovescia perciò la piramide ponendo alla base le realtà territoriali più vicine al cittadino.
La riforma dell’epoca avrebbe dovuto completarsi con l’individuazione dei cosiddetti Lea, (livelli essenziali di assistenza), ma in oltre venti anni tale individuazione non è stata mai realizzata. Anzi, alcuni tentativi di riforma hanno provato a ristabilire il vecchio testo costituzionale, come la proposta di legge costituzionale del 15 gennaio 2014 presentata a firma Cirielli – Meloni, che prevedeva di abolire le regioni con la nascita di “36 centri propulsori della gestione amministrativa della cosa pubblica”, in quanto “l’affollamento istituzionale generato da una distorta e generosa interpretazione del principio del pluralismo istituzionale affermato dall’art.5 della Costituzione ha determinato una frantumazione delle articolazioni funzionali senza che siano ricondotte a omogeneità da un coerente disegno unitario del sistema autonomistico”.
Anche la sciagurata riforma delle province e delle città metropolitane, del 2014, apporta ulteriori elementi di confusione nella ripartizione delle competenze e delle funzioni tra i diversi livelli dello Stato, con un tentativo finale, nel 2016, da parte del governo Renzi, di modificare ulteriormente la carta Costituzionale, naufragato per effetto di un chiaro esito referendario che bocciò l’iniziativa.
In questo quadro di estrema confusione, e di tentativi maldestri di modifica della Costituzione, irrompe oggi il nuovo progetto di autonomia differenziata.
Inutile dire che il tentativo appare molto frettoloso e ambizioso: taglia fuori, nella fase di avvio, il Parlamento e le stesse Regioni, calando dall’alto un modello che ambisce, tra l’altro, a definire i Lep (Livelli essenziali prestazioni), in meno di un anno.
I Lep sostituiscono, quindi, i vecchi Lea, ma la sostanza non cambia: in venti anni non si è riusciti a definire i Lea mentre si immagina di definire i Lep entro la fine del 2023.
Occorre anche chiarire che l’autonomia differenziata riguarderà, in questa fase di avvio, solo le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, cui si aggiungeranno, in una fase successiva, Piemonte, Liguria e Toscana.
Le materia su cui si gioca l’autonomia differenziata sono definite dall’art. 116, comma 3 della Costituzione, introdotto, come si diceva, con la riforma costituzionale del 2001.
Tra tutte due riguardano settori particolarmente sensibili: scuola e sanità. Sulla sanità lo stesso ministro della Salute Schillaci ha evidenziato come il ruolo guida debba restare nazionale, in quanto occorre lavorare per ridurre i divari inaccettabili tra diverse aree del Paese; particolare attenzione deve essere dedicata alla definizione dei Lep, alla gestione delle liste di attesa, ad evitare quel fenomeno di “turismo sanitario” che già oggi vede cittadini delle regioni del Sud spostarsi verso Nord per ottenere cure migliori e più tempestive.
Insomma il rischio che l’autonomia crei differenze penalizzanti, accentuando i ritardi e i divari già esistenti, è molto alto: questo impone una particolare cautela nell’affrontare i passi successivi di attuazione del progetto.
L’altro settore riguarda l’istruzione. Anche in tal caso alcuni governatori di regioni del Sud hanno protestato la propria contrarietà ad un’autonomia che rischia di creare differenze in un ambito molto delicato per i giovani. Creare una scuola a marce differenziate porta ad allontanare i livelli di apprendimento e la possibilità di una formazione adeguata tra regioni più ricche e regioni più povere. E a tale proposito anche la questione risorse è particolarmente significativa: se realizzare l’autonomia differenziata significherebbe dare maggiori risorse ad alcune regioni piuttosto che ad altre il progetto partirebbe sicuramente in maniera sbagliata.
L’ultima bozza presentata in Consiglio dei Ministri pone dei paletti: le Regioni non interessate dalle riforme non dovranno essere penalizzate in termini di risorse. In pratica le intese non potranno pregiudicare l’entità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre regioni. Anche sulla durata delle intese si è posto il limite dei 10 anni, mentre viene ribadito che l’autonomia differenziata dovrà essere a costo zero per il bilancio dello stato, in quanto non dovranno derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Il trasferimento delle funzioni alle Regioni sarà possibile solo dopo la definizione dei Lep e dei correlati fabbisogni standard, operazione che prevede tempi molto stretti: la legge di bilancio 2023 ha istituito una cabina di regia ad hoc che dovrà realizzare entro sei mesi una mappatura della spesa storica e una individuazione dei Lep che, nei successivi sei mesi, saranno inseriti in un apposito dpcm. Considerata la particolare sensibilità del tema viene previsto che Affari regionali, Mef e singole Regioni interessate potranno disporre verifiche su specifici profili o settori di attività oggetto dell’intesa con riferimento alla garanzia del raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni.
Qualcuno adombra in questo tentativo di riforma lo spirare dei vecchi venti di secessione, o comunque la volontà di riprendere il disegno di distinguere territori economicamente più avanzati rispetto a regioni più indietro, come già avvenuto con il tentativo di riforma del federalismo fiscale, che pure tante perplessità aveva sollevato, e anch’esso rimasto per fortuna sulla carta.
Altri propendono per una lettura di tale autonomia come un progetto sterile, che non differenzia effettivamente e rischia di creare solo più confusione.
Come spesso succede nessuna tesi è mai completamente giusta o sbagliata. Se la riforma in cantiere servirà ad individuare finalmente i Lep e i fabbisogni standard, fissando finalmente dei livelli minimi essenziali al di sotto dei quali i servizi non possono considerarsi tali, almeno avremmo recuperato più di venti anni di ritardo, dalla riforma del 2001.
Ma se questo è l’effetto positivo occorre riflettere sul fatto che, al contrario, una uniformità nelle condizioni di accesso, e di fruizione, dei servizi non può che passare attraverso una regia unica, nazionale, che tenga conto delle sperequazioni sociali e territoriali e introduca meccanismi di riequilibrio. Altrimenti si rischia di accentuare il divario, di inasprire il gap già fin troppo evidente tra regioni del nord e regioni del sud.
Lo stesso principio di eguaglianza, formale e sostanziale, che è posto alla base della nostra Costituzione, verrebbe fortemente compromesso.
Altra questione, ovviamente, è comprendere i meccanismi attraverso i quali, definiti i livelli essenziali, si riesca poi a creare condizioni ottimali di accesso ai servizi, secondo standard predefiniti omogenei a livello territoriale.
Ma non è sicuramente l’autonomia e la differenziazione che spingono in tal senso, quanto invece una politica di analisi, verifica, e perequazione.
Il progetto di autonomia differenziata, una volta definito, dovrà poi approdare in Parlamento, dove è previsto ovviamente un dibattito ed un’approvazione. Partire da un testo non condiviso preliminarmente dal Parlamento, non discusso e analizzato con le Regioni – i governatori hanno lamentato il mancato coinvolgimento – rischia di impantare il tutto, creando un dibattito infruttuoso che inasprisce i toni e dispone negativamente anche per future – e migliori – riforme costituzionali.
Più opportunamente andrebbe valutato l’impatto che una riforma costituzionale avviata ormai più di vent’anni fa ha avuto sugli assetti istituzionali del Paese, anche alla luce dei tentativi di attuazione e di modifica che sono falliti nel frattempo.
La Costituzione ha un suo equilibrio di fondo che sancisce la base democratica della repubblica e l’esercizio dei diritti e dei doveri dei cittadini, tutelando i valori inalienabili della convivenza civile. L’ esperienza ha dimostrato come ogni tentativo di modifica frettolosa e parziale o di trasformazione di fatto espone al rischio di perdere l’unità del disegno, che è insieme garanzia e forza dell’attuale modello costituzionale.

Giuseppe Formichella