CULTURA

AVOCAZIONE IN ITALIA: ANALISI SCRUPOLOSA DI UN ITER PER MOLTI ASPETTI SEMISERIO

By 23/11/2022No Comments

La confessione di un sostituto procuratore generale sugli art. 407-412-415 bis – commi 5 bis e 5 ter c.p.p. “Incredulità e voglia di ridere” – Le polemiche storiche e la riforma Cartabia

Anzitutto, una premessa. Le poche pagine che seguiranno avranno un’impronta fortemente autobiografica, giacché la nuova disciplina in tema di avocazione delle indagini da parte del procuratore generale come dettata dagli artt. 407 bis, 412, 415 bis commi 5 bis e 5 ter c.p.p. verrà esaminata alla luce della mia quotidiana professione di sostituto all’interno di un grande ufficio di Procura.
Come capita in molti scritti autobiografici, anche il mio inizia con una confessione. Quando ho letto il nuovo contenuto dei citati articoli, ho provato un forte moto di riso, accompagnato anche da un senso di assoluta incredulità. Sono consapevole del carattere (non solo irriguardoso, ma anche) decisamente anomalo della mia reazione. Già di per sé, a prescindere cioè dalle novità introdotte nel codice di
procedura dalla cd. Riforma Cartabia di cui al d.lgs. n. 50 del 2022, la tematica dell’avocazione non è propriamente un argomento che suscita pensieri lieti in chi esercita le funzioni di pubblico ministero in Tribunale ed anzi a dirla tutta, l’istituto in discorso è da sempre (da molto prima della stessa adozione del codice di rito del 1988 che ha posto qualche argine al potere del Procuratore generale di subentrare ai colleghi di primo grado nella conduzione delle indagini) catalizzatore di discussioni polemiche e numerose sono state le proposte per una sua abrogazione o comunque riscrittura. In effetti, da un lato l’eventuale scelta del Procuratore generale di assumere presso di sé la direzione delle indagini è spesso fondata su una valutazione non proprio benevola delle capacità investigative e della laboriosità del pubblico ministero originariamente titolare del procedimento ed, in secondo luogo, nella storia giudiziaria del nostro Paese il ricorso all’avocazione non di rado è stato accompagnato da polemiche in quanto – corretta o meno che sia tale valutazione – si è di frequente ritenuto che all’esercizio di tale potere seguisse di fatto una paralisi assoluta delle indagini e quindi un “insabbiamento” delle stesse.
Nel caso di specie, poi, la nuova disciplina sembra proprio consegnare all’avocazione il ruolo di una tipologia di sanzione nei confronti del sostituto procuratore cui è sottratto il procedimento. Il presupposto dell’operatività dell’istituto, infatti, risiede nell’inerzia del pubblico ministero titolare delle indagini il quale, scaduto il relativo termine o notificato all’indagato l’avviso di conclusione delle stesse e trascorso il tempo concesso alla difesa per l’interlocuzione, non provveda né ad esercitare l’azione penale né a richiedere l’archiviazione.
Confessata, dunque, la mia reazione una volta conosciuto il contenuto della riforma, bisogna che spieghi per quale ragione, se è corretto quanto detto in precedenza circa l’istituto dell’avocazione, l’innovazione contenuta negli artt. 407 bis, 412, 415 bis commi 5 bis e 5 ter non mi ha preoccupato (come invece accaduto a molti miei colleghi), ma mi ha reso in un primo momento ilare e poi incredulo. Perché quando ho
spiegato la novità al personale della mia segreteria (preciso, perché detta così sembra di chissà quanti collaboratori disponga. In realtà si tratta di un solo segretario che mi assiste in, tutte le attività che svolgo quale pubblico ministero: dalle convocazioni dei testi alle notifiche degli avvisi a comparire, dalla indicizzazione del fascicolo una volta terminate le indagini alle relative notifiche, dalla trascrizione dei decreti di sequestro ai rapporti con l’ufficio spese di giustizia, dalle notifiche dei decreti di citazione a giudizio alle convocazioni dei testi per le udienze dibattimentali, finendo con la tenuta delle mie statistiche personali e la conservazione dei provvedimenti che devo presentare in occasione delle mie valutazioni di personalità), il mio segretario si è fatto una risata (ma più rispettosa della mia?).
Prima di rispondere, è il caso di rileggere la disciplina contenuta negli artt. 407 bis,412, 415 bis commi 5 bis e 5 ter c.p.p.
La nuova normativa prevede che il pubblico ministero deve scegliere se esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine di investigazione ovvero, se ha disposto la notifica dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, entro tre mesi dalla scadenza dei termini di cui all’articolo 415 bis, commi 3 e 4, c.p.p.. Se quanto detto non si verifica nei termini anzidetti, il Procuratore Generale ai sensi dell’art. 412 c.p.p. presso la Corte d’Appello può disporre, con decreto motivato, l’avocazione delle indagini preliminari – salvo l’ipotesi residuale e limitata a casi specifici, in cui il pubblico ministero, prima della scadenza del termine per la conclusione delle indagini, presenti al Procuratore generale richiesta motivata di differimento della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini.
A leggerla così, l’innovazione del legislatore non solo pare tutt’altro che “spiritosa” ed anzi sembra meritare un deciso apprezzamento giacché la normativa è diretta a porre un adeguato rimedio ad una prassi che purtroppo è assai frequente negli uffici giudiziari italiani ovvero quella di conoscere con (tendenziale) certezza il momento in cui iniziano le indagini ma di ignorare il momento in cui le stesse avranno la loro conclusione.
Precisiamo. E’ evidente che il problema non è rappresentato dalla possibilità che il pubblico ministero, scaduti i termini di legge di cui all’art. 407 c.p.p., continui ad indagare su un soggetto: tale eventualità, che senz’altro rientra nell’ordine delle cose, trova infatti adeguata regolamentazione nella previsione di inutilizzabilità degli elementi conoscitivi raccolti dopo che risulti trascorso il tempo concesso dal legislatore per l’approfondimento investigativo (senza considerare che un tale comportamento da parte del singolo pubblico ministero potrebbe determinare anche una sua possibile responsabilità disciplinare, se non penale) e tale processuale irrilevanza degli atti investigativi così posti in essere tutela in maniera soddisfacente l’indagato (il quale peraltro, come detto, potrebbe poi agire anche in altre sedi nei confronti del pubblico ministero che ha continuato ad investigare nei suoi confronti senza averne legittimazione per l’intervenuto superamento dei termini).
L’esigenza che la riforma intende soddisfare è quella di evitare che il pubblico ministero, esaurite le indagini – o perché non vi sono altri atti istruttori da svolgere o perché non è possibile procedere all’adozione degli stessi per il superamento dei relativi termini di cui all’art. 407 c.p.p. -, possa liberamente omettere di assumere qualsiasi decisione sulla sorte del procedimento del relativo indagato, non scegliendo né di esercitare l’azione penale né di richiedere l’archiviazione. In tal caso, infatti, il comportamento del pubblico ministero non trova alcuna sanzione in sede processuale – rimanendo egli libero di optare, quando lo riterrà più opportuno, per la definizione in un senso o nell’altro del procedimento -, mentre la sua inerzia si riverbera ad esclusivo pregiudizio dell’indagato, il quale rimane in una sorta di limbo, all’interno di una fantasmagorica posizione processuale da cui potrà sottrarlo solo il pubblico ministero se e quando sceglierà di assumere qualche decisione.
Preso atto di tale (tutt’altro che infrequente) situazione, il legislatore del 2017 pensa di potervi rimediare dicendo al sostituto procuratore inquirente “o provvedi tu a decidere cosa fare del procedimento o, trascorso un determinato termine, ci penserà il Procuratore Generale, il quale provvederà ad avocare le indagini ed a deciderne lui stesso la sorte”.
Ed allora, da dove derivano le mie perplessità? Beh, a mio parere il legislatore ha errato completamente nella lettura del fenomeno che,
per ragioni di sintesi, possiamo in questa sede chiamare “inerzia del pubblico ministero” che procede allo svolgimento delle indagini. Il presupposto della riforma, infatti, penso sia senz’altro da rinvenire nella considerazione secondo cui la mancata definizione del procedimento nella fase delle indagini, una volta che le stesse siano concluse o comunque siano scaduti i termini per il loro svolgimento, risieda in una sostanziale incapacità del sostituto procuratore di decidere, sia tale incapacità dovuta ad una inadeguata preparazione ed attitudine professionale del magistrato o sia la stessa dettata da più inconfessabili – e quindi censurabili – ragioni. È chiaro che se è questo il motivo per cui gran parte dei procedimenti non trovano una loro conclusione della fase investigativa nonostante sia trascorso il periodo temporale concesso dal codice di procedura per procedere alle indagini, allora per rimediare al problema non vi è altra soluzione che fa subentrare all’originario titolare del “fascicolo” un altro pubblico ministero da individuarsi nei soggetti che esercitano il loro ufficio presso la Procura Generale della Corte d’appello.
In realtà, le cose non stanno così e le ragioni per cui un procedimento penale non viene definito nei termini di legge spesso e volentieri non sono attribuibili a scelte o ad inadeguatezza o incuria del magistrato inquirente, ma sono rinvenibili in altri fattori ed in particolare nello stato di assoluta difficoltà in cui versa l’amministrazione della giustizia nel nostro paese.
Riprendiamo l’approccio autobiografico ed analizziamo come si svolge il mio lavoro di sostituto procuratore – che, ovviamente, non presenta alcuna specificità rispetto al modo con cui lavorano i miei colleghi e quindi le riflessioni che formulo nelle righe seguenti valgono in termini generali.
Poniamo che io decida di richiedere l’archiviazione per l’indagato e rediga anche la relativa istanza. Il relativo procedimento, tuttavia, è piuttosto complesso e si compone di più faldoni per un totale di 1000, 2000 fogli; ciò significa che il mio segretario dovrà,prima di inviarlo al giudice delle indagini preliminari, provvedere ad indicizzarlo, sistemarlo, dare avviso alle persone offese se ne hanno fatto richiesta (ed anche se non ne hanno fatto richiesta, quando si tratta di particolari reati), tutti adempimenti che dovrà curare nel mentre, come ho detto prima, deve provvedere alle notifiche per udienze, alle convocazioni dei testimoni che ho citato, alle annotazioni dei sequestri, ecc..
Ed allora, se in questo caso io come pubblico ministero ho nel termine previsto dal comma 3-bis dell’articolo 407 c.p.p. provveduto a redigere la richiesta di archiviazione ma, per le più svariate ragioni, il relativo procedimento non risulta pervenuto alla segreteria del giudice delle indagini preliminari (come si usa dire nelle stanze delle Procura, il procedimento non è stato “scaricato”), si versa in un’ipotesi in cui il Procuratore Generale dovrà provvedere alla avocazione? Oppure, il Procuratore Generale potrà in tale ipotesi soprassedere asserendo che di fatto il sostituto procuratore presso il Tribunale ha definito il procedimento anche se lo stesso non ha trovato una formale definizione per ragioni inerenti le difficoltà di funzionamento dell’ufficio? Ma se si adotta questa soluzione, non avrebbe ragione di dolersene l’accusato per il quale la circostanza che io abbia o meno già scritto la richiesta di archiviazione è irrilevante posto che la sua posizione rimane quella di indagato con tutte le conseguenze deleterie che ne derivano e non avrebbe quindi la difesa legittimazione a richiedere alla Procura Generale di attivarsi ai sensi dell’art. 412 c.p.p.?
Certo, si potrebbe pensare di adottare la soluzione alternativa che ha proposto il legislatore e cioè io potrei chiedere a mio segretario – che è quello che non ha il tempo di “scaricare” l’archiviazione perché, scusate se mi ripeto, deve provvedere alle convocazioni dei testi, alle notifiche degli avvisi a comparire, alla trascrizione dei decreti di sequestro, ai rapporti con l’ufficio spese di giustizia, alle notifiche dei decreti di citazione a giudizio, alle convocazione dei testi per le udienze dibattimentali – di depositare presso la Procura Generale un’istanza di proroga per la definizione del procedimento e ciò andrebbe fatto per ogni procedimento per il quale la mia segreteria non sia in grado di provvedere entro il rigido termine di tre mesi dalla scadenza delle indagini.
È chiaro adesso perché il mio segretario, si è espresso con un’amara risata nel commentare la riforma?
E poi, se decidessi di chiedere la proroga alla Procura Generale, dovrei evidentemente motivarla indicando le difficoltà in cui versa la mia segreteria. Ma allora il Procuratore Generale cosa dovrebbe fare: accettare senza discutere questa giustificazione o venire nel mio ufficio a vedere come stanno effettivamente le cose? Ed in quest’ultimo caso, qualora decidesse di procedere alla avocazione, tale scelta suonerebbe come rimprovero nei confronti o rimbrotto nei confronti del mio segretario? Il tutto tacendo la circostanza che la nuova normativa subordina la concessione della proroga a rigide condizioni, fra cui non rientra le difficoltà di funzionamento del mio ufficio. E comunque, posto che la mancata definizione del procedimento dipende – non da un mio inadempimento, ma – dalle difficoltà in cui versa la mia segreteria, al pari di, pressoché, la totalità delle segreterie che assistono il singolo magistrato, è davvero pensabile che tali difficoltà non sussistano anche nell’ambito della struttura amministrativa che affianca il (povero) collega della Procura Generale che dovrà prendere il mio posto?
Seconda ipotesi. Io svolgo indagini per un reato per cui si procede a citazione diretta e nei termini di legge decido di esercitare l’azione penale. In questo caso, anche il mio segretario è perfettamente efficiente e fa tutto quello che deve fare senza superare la ghigliottina prevista dall’art. 407 ed è pronto a notificare il decreto di citazione a giudizio a quello che dovrebbe essere ormai diventato (ma non è così, come vedremo fra un attimo) l’imputato. Tutto è pronto, dunque, solo che due mesi dopo il mio segretario bussa alla porta della mia stanza e mi dice che non ha ancora potuto provvedere alla notifica del decreto di citazione perché il Tribunale non gli ancora comunicato la data dell’udienza.
Il problema – che il legislatore forse ignora ma che chi lavora in Procura, come magistrato o come suo assistente, ben conosce (e perciò ride della riforma) – è che negli uffici giudiziari italiani il raccordo fra la Procura ed il Tribunale è, specie per quanto riguarda i reati per cui si deve procedere mediante citazione diretta, particolarmente problematico.
La prassi infatti prevede che l’organo inquirente, prima di notificare il decreto di citazione all’interessato, richieda al giudice di indicargli la data della prima udienza e senza questa indicazione non è possibile (non solo, per ovvie ragioni, notificare la citazione all’imputato, ma anche) per il pubblico ministero emettere il decreto di citazione apponendo sullo stesso la propria firma, ed esercitare così in questo modo l’azione penale. Ed allora, se io ho formulato l’imputazione, la segreteria ha predisposto
il fascicolo ed il decreto di citazione, il tutto nei termini di legge, ma successivamente, per qualsivoglia ragione (che poi è sempre la stessa, ovvero la carenza di personale e mezzi), il Tribunale non ci comunica la data si versa o no in una situazione che legittima il Procuratore Generale ad avocare le indagini? E poi, anche se il Procuratore Generale decide di intervenire, cosa può fare e che senso ha la sua avocazione: non è che il tribunale non comunica la data di udienza a me perché gli sto antipatico mentre il Procuratore Generale vedrà la sua richiesta subito soddisfatta.
Ma allora, a seguire le mie argomentazioni, non vi è alcun possibile rimedio all’inerzia del pubblico ministero che lascia l’indagato per un tempo inammissibilmente lungo in una situazione di assoluta incertezza, senza decidere se cercare una verifica dibattimentale delle proprie tesi accusatorie o rinunciare a richiedere la condanna dello stesso?
Non è così. In realtà, i rimedi a tale situazione ci sono e c’erano già in precedenza. In primo luogo, un controllo sulla adeguata solerzia del singolo sostituto procuratore compete al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale: è lui, quale capo dell’ufficio, a (dover) conoscere le effettive capacità lavorative dei suoi sostituti, nonché le difficoltà – temporanee o strutturali – in cui gli stessi possono trovarsi ad operare ed è in capo a lui, primariamente, che grava l’onere e l’obbligo di riprendere, stimolare o (se non si versa in situazioni che coinvolgono responsabilità individuali) agevolare i suoi colleghi nello svolgimento del loro servizio. In secondo luogo, l’avocazione rimane uno strumento essenziale per rimediare alle situazioni problematiche cui abbiamo fatto riferimento sopra ma tale istituto deve mantenere una flessibilità di funzionamento, si da consentire al titolare del relativo potere di esercitare lo stesso solo in presenza di circostanze che effettivamente dimostrino che la mancata definizione del procedimento è dovuta ad una ingiustificabile inattività o censurabili omissioni del sostituto procuratore originariamente titolare del procedimento.
Cercare di porre rimedio a problematiche che sono nella maggior parte delle volte determinate dalla carenza del personale amministrativo (prima del recente concorso per l’assunzione di personale di cancelleria erano 19 anni che il Ministero della Giustizia non procedeva l’assunzione di soggetti da destinare all’assistenza dei magistrati!) non reca un buon servizio né magistrati (siano essi sostituti presso il Tribunale o Procuratori presso la corte d’appello) né tanto meno agli indagati.

Ciro Santoriello