POLITICASCIENZA

BALDUZZI: “LA MIA COSTITUZIONE SANITARIA E’ ECCELLENZA SCIENTIFICA DA SOSTENERE”

By 24/03/2023No Comments

Approfondita analisi dell’ex ministro alla Sanità sulle scelte del legislatore: fondamentale tutelare l’universalità della salute – No a disuguaglianze regionali che danneggerebbero il Servizio nazionale – Le ragioni della cultura: nel settore biomedico l’Italia fa la parte del leone – Il concetto di “Casa della Comunità” e la necessità di mettere mano ad una seria riforma della sanità territoriale prefigurata nel Pnrr – Gli aspetti privatistici

Prof. Balduzzi, Lei conosce bene il Sistema Sanitario Nazionale essendo stato anche Ministro per la Salute nel Governo Monti. Il Servizio Sanitario Nazionale nasce nel 1948. La Legge 883 del 23 dicembre 1978 ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale che si basa su tre principi cardine: l’universalità, l’uguaglianza e l’equità, con un riferimento preciso all’art. 32 della Costituzione. La salute diventa un diritto fondamentale garantito dalla Repubblica. E’ sempre così?
Nel messaggio di fine anno 2018, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricordò i quarant’anni dalla legge 833 e pronunciò parole rimaste giustamente impresse nella mente di molti italiani: «È stato – ed è – un grande motore di giustizia, un vanto del sistema Italia (…). Non mancano difetti e disparità da colmare. Ma si tratta di un patrimonio da preservare e da potenziare».
La pandemia per un verso ha confermato la bontà delle scelte di sistema fatte dal nostro costituente e attuate dal legislatore ordinario, e per altro verso ha aiutato a vedere meglio alcune debolezze nell’assetto del Ssn. Quella che a me piace chiamare la “Costituzione sanitaria” del nostro Paese, formata in sede di Assemblea costituente grazie soprattutto all’apporto di idee e di competenze di alcuni medici di diverso orientamento politico eletti in essa, è ancora vitale: avere fatto derivare la tutela della salute, in quanto fondamentale diritto dell’individuo e altrettanto fondamentale interesse della collettività, dai principi costituzionali di eguaglianza sostanziale e di solidarietà (superando impostazioni paternalistiche e, si direbbe oggi, “compassionevoli”), e lo stretto legame tra la garanzia di tale diritto e l’organizzazione dei servizi sanitari che concorrono ad assicurarne la tutela, sono state acquisizioni preziose che hanno aiutato il percorso successivo. La legge 833 venne poi a creare, appunto, un sistema nazionale di tutela della salute fondato sull’universalità dei destinatari, la globalità della copertura assistenziale, l’equità di accesso sotto il profilo economico e territoriale, l’appropriatezza delle prestazioni e il finanziamento sulla base della fiscalità generale (progressiva, cioè equa), con la finalità primaria di promuovere l’avvicinamento tra situazioni regionali diverse, mirando a ridurre le diseguaglianze territoriali e le conseguenti disparità di trattamento personali, non a cristallizzarle. Le successive riforme della legge 833 hanno consolidato il Ssn, soprattutto attraverso la regionalizzazione e l’aziendalizzazione, che hanno permesso di strutturare un sistema complessivamente efficiente e reputato a livello internazionale, nonché attraverso la nozione di livelli essenziali di assistenza, intesi come necessari e appropriati, una clausola che conferma l’altro principio cardine del Servizio sanitario nazionale, quello di globalità, e che ha anticipato i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», come recita l’art. 117, comma 2, lettera m) della Costituzione, nel testo introdotto dalla revisione costituzionale del 2001.
Una storia di successi internazionali nella cura della salute, ma anche di forti, continui disagi, nonostante l’eccellenza della classe medica e infermieristica, e che oggi sembra avviata a una quasi inevitabile decadenza.
Siamo in presenza di una narrazione mediatica dello stato della sanità italiana che non trova conferme negli studi e nei rapporti indipendenti più autorevoli che ogni anno la osservano, siano essi quello del Cergas dell’Università Bocconi, quello dell’Osservatorio salute dell’Università Cattolica o quello del Crea dell’Università di Roma Tor Vergata, e che documentano un complessivo aumento della tutela sanitaria e della garanzia dei livelli essenziali di assistenza. Nessun dubbio che esista un diffuso disagio e la percezione di serie difficoltà, ma questa sfasatura tra i dati reali e quelli percepiti dovrebbe fare riflettere, e indurre i responsabili istituzionali, ai diversi livelli, a nazionale e regionali, ad elaborare e condividere una strategia di rafforzamento e consolidamento del sistema sanitario, anche attraverso l’apertura, se del caso, di un vero dibattito nazionale sulla sanità, fondato sulle evidenze e non sulle sensazioni, che talvolta possono essere influenzate da interessi particolari individuali o di gruppo o, più semplicemente, da una prospettiva parziale. Leggiamo in questi giorni prese di posizione, anche gridate, da parte di soggetti che hanno sempre contrastato i principi-cardini e la logica di rete del Servizio sanitario nazionale e che forse oggi sperano, dicendo che tutto deve cambiare, che le loro posizioni di piccolo o grande privilegio non vengano toccate.
Una delle cause potrebbe essere l’evolversi della sanità privata o dalla graduale involuzione della sanità pubblica?
All’interno del Servizio sanitario nazionale operano molti e importanti interessi privati profit, oltre che altrettanto importanti, ma non sempre adeguatamente considerate, organizzazioni non profit. A livello di sottorete ospedaliera, vi è sempre stata la presenza di una componente privata, in funzione complementare e integrativa dell’offerta pubblica. Oggi il peso del privato sta estendendosi anche nella sottorete territoriale. Ciò corrisponde sia all’esercizio della libertà di impresa costituzionalmente garantita, e in questo caso essa deve armonizzarsi con le caratteristiche del modello di sistema accolto, e con i suoi principi di fondo che prima richiamavo; sia all’esercizio di un lavoro professionale autonomo che entra in convenzione con il Ssn, e in questo caso esso deve accettarne la logica di rete. Questi semplici principi non sono sempre chiaramente presenti ai diversi decisori pubblici. Ecco perché è necessario che la politica non tentenni di fronte alla situazione che vede un esodo di troppi professionisti sanitari o verso l’estero o verso strutture private, considerate più interessanti dal punto di vista retributivo e meno impegnative rispetto alle responsabilità e ai compiti del lavoro nelle strutture pubbliche. Occorre fermare la strisciante privatizzazione e chiederci che cosa convenga di più ai cittadini italiani: se un sistema sanitario a più pilastri di finanziamento, sul modello statunitense, il cui rendimento peraltro è unanimemente considerato nettamente inferiore rispetto a quello dei modelli di derivazione britannica, di cui il nostro costituisce uno degli esempi più performanti; oppure un rafforzamento della sanità pubblica, attraverso il perfezionamento degli standard strutturali e organizzativi cui le diverse strutture di offerta devono sottostare, un più chiaro sistema di regole e di incentivi per la loro osservanza, la convinta attuazione della strategia di rafforzamento della sottorete territoriale e di realizzazione effettiva della continuità ospedale-territorio che è stata la lezione più chiara che ci è venuta dall’esperienza della pandemia.
La pandemia, appunto. Essa ha creato non poche polemiche di carattere scientifico, giuridico e politico. Tutte queste contrapposizioni erano e sono giustificabili ?
Sono contrapposizioni per lo più presenti anche in altri Paesi europei, e costituiscono probabilmente l’eco di quella più generale impreparazione (della scienza, della politica, dell’amministrazione, dei singoli) di fronte all’evento pandemico che abbiamo potuto constatare. Per fare soltanto un esempio, mi ha colpito molto la vicenda dell’aereo con un carico di 18 tonnellate di mascherine che a metà febbraio 2020 partì da Brindisi per la Cina, al tempo stesso segno di ammirevole solidarietà ma anche sintomo di inconsapevolezza della situazione reale. Le ragioni di quell’impreparazione vanno probabilmente al di là dell’orizzonte strettamente sanitario, e attengono a profili di ordine culturale il cui esame ci porterebbe lontano, in quanto ha a che fare con alcuni caratteri del vivere contemporaneo, quali il “presentismo”, cioè l’abitudine a vivere in “tempo reale”, poco attenti alle lezioni dell’esperienza e alla prevenzione rispetto a futuri eventi avversi. Vi è tuttavia una peculiarità del sistema sanitario che non deve sfuggirci. Anche nel nostro Paese la pandemia ha posto sotto tensione i rapporti tra centro e periferie, facendo emergere, all’inizio e da un lato, una posizione fortemente critica sulla regionalizzazione e fautrice di un riaccentramento dei poteri pubblici in campo sanitario, e (non senza qualche paradosso), oggi e dall’altro lato, una posizione esattamente rovesciata, volta, sotto l’egida del cosiddetto regionalismo differenziato, ad assegnare ad alcune regioni (ma, potenzialmente, a tutte o quasi tutte) competenze in campo sanitario svincolate dal rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale.
La prima posizione non trovava giustificazione nella realtà normativa, lo Stato avendo già tutti i poteri che servono per contrastare le emergenze sanitarie nazionali, e semmai il problema può essere quello di esercitarli con autorevolezza non disgiunta dalla volontà di favorire comunque la massima condivisione con il sistema delle autonomie regionali, in chiave di leale collaborazione. La seconda posizione, per contro, sembra dettata, più che da asserite esigenze epidemiologiche o di maggiore aderenza ai territori, dalla volontà di fuoriuscire dal modello di Servizio sanitario nazionale: l’intreccio tra le richieste di autonomia “totale” in tema di compartecipazione alla spesa e quelle concernenti i cosiddetti fondi sanitari integrativi permetterebbe infatti a singole regioni di derogare sostanzialmente all’assetto di fondo del Servizio sanitario nazionale e a una delle sue regole-base, quella, come si è detto prima, per cui il finanziamento è assicurato dalla fiscalità generale, provocandone così la destrutturazione. Non sarebbe difficile scorgere nella combinazione di fondi sostitutivi, manovre sui ticket, regole “ammorbidite” quanto all’attività libero-professionale intramuraria e facoltà di assumere personale sanitario con minori vincoli e di retribuirlo in misura “differenziata”, la possibile costruzione di un sistema “a doppio pilastro” assai squilibrato, nel quale la qualità dei servizi e delle prestazioni rese dalla componente pubblica sarebbe inevitabilmente recessiva rispetto a quella realizzabile all’interno del settore privato. Ma vogliamo davvero rinunciare al nostro patrimonio di sanità pubblica senza discuterne?
C’è una dicotomia tra il sistema sanitario e l’eccellenza scientifica. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) può consentire di dare nuovo impulso alla ricerca ?
Non dobbiamo dimenticare che, nel bilancio tra quanto il nostro Paese contribuisce al finanziamento globale della ricerca scientifica e quanto riesce a “portare a casa” in termini di risorse e bandi internazionali vinti, il settore biomedico è quello dove, nettamente, facciamo la parte del leone. Dunque, la nostra ricerca sanitaria, anche quella strettamente intrecciata con il sistema sanitario (penso agli Irccs, cioè agli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, specializzati nella ricerca traslazionale e strettamente integrati con i Servizi sanitari regionali), è tutt’altro che marginale. Il Pnrr costituisce un’ulteriore occasione positiva, sia perché investe molto nel settore R&S, sia perché è stata colta l’occasione per collegare l’investimento in ricerca di base e applicata con l’investimento sull’infrastrutturazione della ricerca, in particolare quella telematica. In campo sanitario questo approccio è suscettibile, se esattamente compreso e attuato, di dare risultati positivi. Pensiamo alla cosiddetta telemedicina.
Ricerca e lavoro: cosa deve fare il governo per impedire il continuo esodo dei ricercatori all’estero?
Su questo punto ha scritto recentemente Silvio Garattini, invitando Governo e Parlamento a non indugiare nel compiere alcune scelte che, in prospettiva, possano permettere di riequilibrare l’attuale tendenza. Concordo con larga parte delle sue proposte, e in particolare con quelle che tengono insieme il potenziamento delle capacità formative delle Scuole universitarie di medicina con il miglioramento del trattamento economico di chi lavora in sanità e la riorganizzazione della sanità territoriale. In particolare vorrei soffermarmi su quest’ultimo punto. Il riordino della sanità territoriale disegnato nel d.m. 77/2022 ha il suo cuore nella figura delle Casa della comunità, evoluzione del modello della “Casa della salute”, ma non mera rivisitazione di quest’ultima: il genitivo possessivo qui dovrebbe esprimere una più forte imputazione e integrazione tra le persone dimoranti in un determinato luogo e l’organizzazione integrata dei servizi sociosanitari e socioassistenziali, così da rendere biunivoco il rapporto tra bisogno e servizio, e dare contenuto effettivo alla cosiddetta presa in carico. Perché ciò accada, occorre una maggiore determinazione e autorevolezza del momento centrale: giustamente Garattini sottolinea come sia contraddittorio pensare che si possano costruire e fare funzionare 1350 Case della comunità e 400 Ospedali di comunità (questi probabilmente dovrebbero essere, almeno in parte, congelati a favore di un rafforzamento degli ospedali più grandi e sicuri) mantenendo l’attuale sistema dei medici di famiglia. Ritorna qui la necessità di prendere sul serio la riforma della sanità territoriale prefigurata nel Pnrr e nel d.m. 77, e di investire lo straordinario afflusso di risorse, a titolo di prestiti o di contributi a fondo perduto, provenienti dall’Unione europea, per aiutare la sanità italiana a compiere un ulteriore salto di qualità. Ancora una volta, l’esempio è la telemedicina. Le linee di indirizzo del 2014 si focalizzavano su profili settoriali, ancorché importanti, quali l’attenzione ai pazienti in contesti disagiati (montani, insulari, zone interne, carcere): era già ben presente il ruolo della telemedicina in ordine alla continuità delle cure, all’integrazione tra ospedale e territorio e al miglioramento della medicina generale. Le successive indicazioni nazionali del 2020 introducono una tipologia delle prestazioni di telemedicina, dalla quale emerge ancora meglio il rapporto tra essa e il territorio. Ma è con il Pnrr, con il collegato d.m. 77/2022 e con le linee guida ministeriali del 2022 che viene con chiarezza indicato che la telemedicina ruota, necessariamente, sul “territorio” (perché sul territorio c’è la casa del paziente) e richiede una relazione, intesa come consapevolezza che si è intrecciati e come capacità di stare dentro la Rete e di stare in rete. La telemedicina consente di realizzare quel rovesciamento di prospettiva che è insito, come si è detto, nella nozione stessa di Casa della comunità e che permea un po’ tutta la “nuova” sanità territoriale. Saranno i prossimi anni a dirci se essa diventerà realtà o rimarrà, ancora una volta, un sogno o un’illusione.

Gianni Maria Stornello