CULTURAPOLITICA

BANLIEUES FRANCESI E BARRIERA DI MILANO LA VIOLENZA HA RADICI SOCIALI PROFONDE

By 25/07/2023No Comments

Parte della società transalpina e piemontese protesta per malesseri comuni: la povertà, il degrado nelle periferie, la droga – L’esasperazione non si combatte a colpi di fucile, ma con la comune crescita sociale – La responsabilità delle forze di polizia francesi e italiane, dei gruppi violenti, ma anche della politica e dei media.

“S’acharnent à discriminer, les mêmes minorités face aux mêmes électeurs, les mêmes peurs sont agitées. On oppose les communautés, pour cacher la précarité. Que personne ne s’étonne si demain ça finit par péter” .
Questi i versi che il cantante Kery James scrisse nel 2015 e che oggi suonano profetici.
Dopo l’uccisione di Nahel e le proteste che hanno infiammato la Francia, torna attuale il tema delle violenza delle forze dell’ordine e del degrado delle periferie; in questo contesto una domanda sorge spontanea: ha senso contrapporre una violenza di massa alla violenza dei singoli?
“Prima di tutto non è una violenza di massa – dice Flore, ventunenne di Orange, ora studentessa di Scienze politiche all’Università di Torino – ma di una singola parte della società. I francesi stessi sono divisi sulla questione, non è come per le proteste relative alle pensioni. Dall’altra parte a ben guardare non c’è la violenza di un singolo agente, ma globale, di un sistema che ha metodi violenti, repressivi e razzisti anche in Italia. Pochi giorni fa a Marsiglia un ragazzo è morto perché gli hanno sparato una flash-ball nel petto; qui a Torino per le manifestazioni sul caso Cospito la polizia ha accerchiato il corteo impedendogli di fare il suo percorso legittimo e poter sparare i lacrimogeni.”
Anche sul riconoscimento della violenza dei singoli poliziotti c’è divisione: la colletta per la famiglia dell’agente che ha ucciso Nahel ha già raccolto più di un milione di euro. In più c’è la questione delle “mele marce”: i vertici della polizia hanno avallato un rapporto (poi smentito dai video) in cui si sosteneva che Nahel stesse per investire i due gendarmi con l’auto. Le menzogne ai vertici dell’arma non sono certo una novità nemmeno in Italia: basti pensare ai 25 dirigenti della Polizia di Stato italiana condannati in via definitiva per la “macelleria messicana” del G8 di Genova del 2001.
Anche nel Torinese non mancano gli episodi di violenza delle forze dell’ordine: si ricordino le cariche della Polizia a gennaio del 2022, dove diversi studenti sono rimasti feriti dai manganelli, mentre ricordavano Lorenzo, morto di alternanza scuola-lavoro. E come non citare le violazioni dei diritti umani in Val Susa ai danni del movimento NoTav (condannate peraltro dal Tribunale Permanente dei Popoli).
Agli occhi di una parte della popolazione, la reputazione della Polizia e la legittimazione del suo potere sono compromesse: “Io stessa – continua Flore – quando vedo un poliziotto in una manifestazione j’ai mal au ventre (sono spaventata ndr), anche se ho tutto in regola e gli agenti sono gentili. È che mi ricordo degli episodi di violenza a cui ho assistito e che ora associo alle Forze dell’Ordine.”
Ad aggiungere benzina sul fuoco intervengono le dichiarazioni di diversi politici che sostengono che gli abusi di potere non ci sono mai stati, il che non fa che radicalizzare la protesta.
È possibile anche fare un parallelismo tra quartieri come Barriera di Milano e le banlieues. Flore osserva ancora: “Vivo a Porta Palazzo ma vado spesso in Barriera e trovo che il problema delle periferie sia evidente anche in Italia. Povertà, degrado, spaccio non sono affrontati e, se lo sono, vengono risolti con più poliziotti armati.”
Il decennale problema della periferia torinese viene inquadrato – soprattutto dalla narrazione populista – focalizzandosi solo sui singoli episodi e mai al processo globale. Continuando il parallelismo con la Francia: “A Orange un mio amico che veniva dalla banlieue ha accoltellato un ragazzo, ma io conoscevo entrambi e non erano criminali; questi entrano in un circolo vizioso dove subiscono violenza a casa, violenza in strada, violenza dalla polizia e finiscono per esercitarla. Molte proteste degli abitanti di periferia che ho visto anche qui a Torino sono questo: la risposta a un sistema che sembra essere contro queste persone.”
Lei sarebbe andata alla “marche blanche” della madre di Nahel?
“Sì e no. – risponde Flore – Sì perché malgrado Nahel non fosse un Santo (guidava senza accompagnatore a bordo e giorni prima era già stato ripreso per atteggiamenti aggressivi ndr) nessuno merita di morire per un’infrazione. No perché avrei avuto paura già prima della risposta della Polizia e perché così come succede qui in Italia si viene subito tacciati di islamo-gauchismo”.
Su temi di così lungo corso come la repressione, l’unica strada per i più giovani rimane la violenza?
“No. – continua la studentessa di Scienze politiche – O meglio, sì ma per quei gruppi di giovani che non hanno nessun altro mezzo politico per farsi sentire, ad esempio la cultura: articoli, post Social, azioni simboliche possono incidere parecchio. Certo devi avere una coscienza politica adeguata e molti, specie se poveri e non scolarizzati, non ce l’hanno”.
Le colpe della politica. Sul rapporto tra le manifestazioni di piazza e la violenza, basterebbe conoscere l’abc della sociologia riguardo ai movimenti sociali; quando un’istanza viene ignorata, le strade sono due: o il declino della protesta o la sua radicalizzazione, con un innalzamento del conflitto. Se da anni il sistema politico risulta impermeabile e anzi alimenta le tensioni sociali (ad esempio contrapponendo le minoranze “opportuniste” al popolo “autentico e meritevole”), l’esito che si vede sui giornali di questi giorni poteva essere previsto.
Fuori dagli estremismi populisti, la politica è silente all’interno di questo circolo vizioso di repressione – protesta – strumentalizzazione dei media – innalzamento del conflitto. Proprio il vuoto istituzionale lasciato da partiti poco coraggiosi viene riempito da movimenti non istituzionalizzati, che nell’era dei Social Network possono mobilitare grandi quantità di persone in breve tempo, ma senza avere il controllo sui loro repertori di azione.
Come viene utilizzata la rete nell’ambito delle manifestazioni pubbliche?
abbiamo chiesto ad uno studente di Scienze Internazionali dell’UniTo, che preferisce restare anonimo. “Ho partecipato alle manifestazioni del 25 novembre e dell’8 marzo e in entrambe quelle occasioni sì, i Social erano usati per organizzare gli spostamenti dei manifestanti e del corteo, quindi ragioni pratiche oltre che di promozione e invito alla partecipazione”.
“Credo che queste manifestazioni in Francia siano state l’occasione per attuare una contro-narrazione da parte dei media tradizionali, che hanno colto la palla al balzo per demonizzare i Social network. Di sicuro è una lettura superficiale: i ragazzi delle banlieues erano arrabbiati già prima per motivi economici, sociali e quant’altro; dare la colpa ai social è fuori dalla realtà. Il dibattito si è concentrato sulla violenza e sulla distruzione, anche perché portava più ascolti: paga molto scrivere ‘Parigi brucia!’ quando in realtà c’è un po’ di rumore in due vie del centro.”
Le piattaforme – Whatsapp/Instagram in Italia e Snapchat/Telegram in Francia – sono da sempre usate come canale preferenziale da parte dei manifestanti, che vogliono far emergere un problema inedito nel dibattito politico e non vogliono che esso sia strumentalizzato; se al tempo del Genoa Social Forum c’era Indymedia, oggi sono i post online a dare voce direttamente agli organizzatori della protesta, i quali forniscono la chiave interpretativa delle loro azioni.
Forse nella rivolta francese è proprio questo che manca: gli strumenti digital-culturali. In primo luogo perché al giorno d’oggi per fare pressione sul sistema politico c’è un ampio spettro di azioni digitali non violente – si veda l’Associazione Coscioni -, in secondo luogo perché la rete usata con consapevolezza mette nel mirino i bersagli specifici (e non distrugge la boulangerie sotto casa che non c’entra niente).
A guadagnare da tutto questo sono i gruppi politici che odiano le periferie e la povertà, che ora possono liberare gli sciacalli mediatici: odio che genera odio. Quando finirà?

Sandro Marotta