
I dati del WWF sono categorici: Europa Meridionale e Paesi del Mediterraneo a rischio di desertificazione – L’uomo colpevole (e vittima) di aver alterato l’equilibrio naturale
La siccità cui purtroppo stiamo assistendo – che non si registrava da 70 anni – quando non è gestita correttamente diventa un motore della desertificazione e potrebbe produrre pesanti ripercussioni non solo sul settore agricolo ma più in generale sull’attività industriale, sulla qualità della vita dei cittadini (condizionando l’approvvigionamento idrico per le abitazioni), sulla produzione di energia (non solo quella idroelettrica, ma anche per le centrali termoelettriche che utilizzano l’acqua) e soprattutto sugli ecosistemi.
Questo emerge dalle recenti considerazioni del WWF, secondo cui con il cambiamento climatico la siccità rischia di diventare una “piaga globale”, mettendo in difficoltà l’Italia e il Mediterraneo che sono particolarmente sensibili a tali fenomeni.
Oltre alla grave siccità, i cambiamenti climatici stanno producendo effetti devastanti anche nel resto dell’Europa; si vedano le grandinate registrate in Croazia, la “gota fria” in Spagna (vale a dire violenti temporali con grandinate e precipitazioni localmente molto intense), l’allerta rossa e la proclamazione dello stato di emergenza nel Regno Unito per il caldo eccessivo, gli incendi (a causa delle elevate temperature) che hanno purtroppo interessato diversi stati, tra cui Spagna, Portogallo e Francia, oltre al distacco del ghiacciaio della Marmolada recentemente avvenuto nel nostro Paese.
L’attenzione verso i cambiamenti climatici è oggetto di discussione da parecchi anni, come denotano l’Agenda 2030 e gli accordi sul clima, tra cui quello di Parigi, da cui emerge che un aumento della temperatura di 2 gradi Celsius avrà effetti critici sia per la natura che per le persone.
Grazie agli accordi sul clima e alla volontà di assumersi chiare responsabilità, anche nell’interesse delle future generazioni, gli Stati europei si sono dati importanti obiettivi di riduzione dei gas a effetto serra, per almeno il 55% (rispetto ai livelli del 1990) entro il 2030, in modo da ridurre l’innalzamento delle temperature globali e dare avvio ad un percorso che porterà l’Unione Europea a diventare la prima economia a impatto climatico zero entro il 2050 e in grado di stimolare gli altri paesi del mondo su tali fondamentali temi.
I cambiamenti climatici sono infatti legati ai cosiddetti gas a effetto serra, i quali possono essere di natura antropogenica o naturale. I primi vengono prodotti dall’uomo principalmente con l’utilizzo di combustibili fossili per la produzione di energia nonché con l’abbattimento delle foreste pluviali, l’allevamento, la produzione di sostanze chimiche, mentre i secondi derivano da processi naturali del nostro pianeta.
Nell’Unione Europea, in particolare, il 77,01% dei gas serra è prodotto dal settore dell’energia, il 10,55% dall’agricoltura, il 9,10% dal settore industriale mentre il 3,32% deriva dal trattamento dei rifiuti.
Ristabilire una corretta relazione tra il clima, la natura e l’uomo appare quindi fondamentale e a riguardo i dati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, ossia l’organo delle Nazioni Unite dedicato agli studi sul cambiamento climatico) evidenziano che nel periodo 2010-2019 il livello di emissione medio globale dei gas serra è stato il più alto della storia dell’umanità, ritenendo che senza una profonda riduzione delle emissioni (in tempi brevi e in tutti i settori) l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi sarà fuori portata.
A questo proposito lo stesso IPCC identifica quattro categorie di rischi-chiave per l’Europa direttamente correlati con l’incremento della temperatura. Essi riguardano le ondate di calore sulle popolazioni e sugli ecosistemi, che potranno colpire in modo più rilevante l’Europa meridionale, i rischi per la produzione agricola, dove il caldo e la siccità produrranno danni significativi sui raccolti, i rischi derivanti da maggiori e più intense inondazioni, a causa dei cambiamenti nelle precipitazioni e dell’innalzamento del livello del mare, oltre ai rischi di scarsità di risorse idriche.
Rispetto a tale ultimo punto si segnala che nell’Europa meridionale la domanda di risorse idriche supera l’offerta, di conseguenza quest’area potrebbe subire danni importanti in caso di un aumento delle temperature globali di 1,5 gradi e gli effetti potrebbero risultare devastanti nel caso in cui il riscaldamento fosse di 3 gradi. In questo ultimo scenario anche nell’Europa centrale e occidentale si segnalerebbe un elevato rischio di scarsità di acqua, con effetti rilevanti anche per tali territori.
A tale riguardo, il rapporto “Siccità in numeri 2022” delle Nazioni Unite evidenzia come nel secolo scorso in Europa si siano verificati 45 gravi siccità che hanno colpito milioni di persone e comportato perdite economiche per oltre 27,8 miliardi di dollari, mentre oggi è affetta da siccità una superficie del 15% e il 17% della popolazione dell’Unione Europea.
Il report aggiunge, inoltre, che se il riscaldamento globale raggiungesse i 3 gradi entro il 2100, come è stato ipotizzato, le perdite derivanti dalla siccità potrebbero essere cinque volte superiori a quelle odierne, generando un danno gravissimo per il Mediterraneo e per le regioni atlantiche europee, stimato in oltre 65 miliardi di euro.
Si tratta quindi di conseguenze potenzialmente devastanti per i nostri territori dove l’uomo è vittima ma anche artefice di questo drammatico cambiamento, come dimostrato anche da un recente studio scientifico di Christidis e Stott pubblicato sul Journal of Climate, dal titolo “Human Influence on Seasonal Precipitation in Europe”.
Gli autori hanno esaminato i cambiamenti delle precipitazioni stagionali in Europa dall’inizio del ventesimo secolo e valutato il ruolo delle diverse forze climatiche, siano esse naturali o antropogeniche. Ne emerge, in estrema sintesi, come l’influenza dell’uomo dia origine a stagioni più secche nel bacino del Mediterraneo e più umide nel resto del continente.
A questo punto non resta che chiederci: come sarà il nostro futuro?
Le soluzioni per agire subito ci sono e secondo IPCC riguardano la transizione energetica (con la riduzione dell’uso dei combustibili fossili e l’utilizzo di sistemi alternativi, quali l’idrogeno), un minore consumo di energia nelle aree urbane (anche con l’elettrificazione dei trasporti e l’utilizzo di fonti energetiche a basse emissioni) e un uso più efficiente dei materiali nelle industrie (con tecniche di riutilizzo e riciclo dei prodotti nonché con un drastico contenimento dei rifiuti).
In agricoltura la strada potrebbe essere, invece, quella della rimozione e dell’immagazzinamento dell’anidride carbonica su larga scala, oltre all’incentivo alla biodiversità.
Bisogna infine pensare che alla base del cambiamento climatico e della conseguente crisi idrica ci sono le politiche economiche, che dovrebbero sempre più sensibilizzare le aziende ad una produzione di qualità e non “intensiva”, ad utilizzare materie a “km zero”, a rispettare l’ambiente, comunicando adeguatamente i propri valori ai consumatori in modo che essi siano più informati e possano privilegiare i prodotti sostenibili.
Risulta infine indispensabile rafforzare l’educazione ambientale, in modo da ridurre la tanta disinformazione purtroppo presente e incentivare comportamenti “green”, che se adottati da tutti potrebbero realmente contribuire a preservare il nostro pianeta per le future generazioni.
Flavio Servato