
Abbiamo chiesto al prof. Maurizio Riverditi, avvocato e docente di diritto penale all’Università di Torino il suo pensiero su questo spaventoso fenomeno
Le parole sono estremamente potenti: esprimendo la nostra visione della realtà, ne definiscono il contenuto, influenzando la percezione della nostra possibilità di modificarla.
Alla parola femminicidio, per esempio, affidiamo il compito di descrivere e contrastare un fenomeno orribilmente spaventoso: la forma peggiore e più vigliacca di sopraffazione dell’uomo sulla donna. Uno schiaffo alla civiltà e alla cultura contemporanee, che ci lascia sgomenti e ci obbliga a riflettere sulle sue cause e sugli strumenti per porvi rimedio.
Le pagine di cronaca ci travolgono quotidianamente con notizie di inaudita ferocia, che narrano di come una storia sentimentale, terminata o mai incominciata, sia stata la causa (o il pretesto) di un gesto che ha posto fine alla vita di donne inermi, per lo più ignare del pericolo e del destino a cui andavano incontro.
Catalogando ed etichettando questi fatti come femminicidi coltiviamo la segreta illusione di averne compreso il significato e di poter consegnare al legislatore e alla magistratura il compito di contrastarli e punirne gli autori; e, in generale, agli altri la responsabilità di impedirne il ripetersi.
E, in parte, è così.
Per opporsi a questa follia, il legislatore ha approvato il c.d. Codice rosso (Legge 19 luglio 2019, n. 69), che, oltre ad inasprire le sanzioni di alcuni reati già presenti nel codice penale (ad esempio i delitti di maltrattamenti in famiglia e contro familiari conviventi e di atti persecutori), ne ha previsti di nuovi (quali i delitti di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.; di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, e altri); ed è intervenuto su alcuni strumenti procedurali per imprimere maggiore rapidità alle indagini necessarie per accertarne la commissione (ad esempio imponendo alla polizia giudiziaria l’obbligo di riferire immediatamente al pubblico ministero la notizia di reato e a quest’ultimo di assumere informazioni dal denunciante entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato) e per favorire la rieducazione dell’autore del reato, anche con il supporto di appositi percorsi individuali.
A quest’ultimo riguardo, infatti, desta senz’altro forte interesse la scelta di subordinare la sospensione condizionale della pena per chi sia stato condannato per taluno dei delitti contemplati dal c.d. Codice rosso alla partecipazione a specifici percorsi di riabilitativi presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati (art. 165 c.p.); nonché la valorizzazione della partecipazione da parte di questi ultimi ad un trattamento psicologico con finalità di recupero e sostegno per la concessione dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario (art. 13-bis, Legge 26 luglio1975, n. 354).
Si tratta, infatti, di strumenti che, oltre a inserirsi a pieno titolo nella funzione più alta e nobile che la nostra Costituzione assegna alla pena, ossia quella di tendere alla rieducazione di (ndr., qualsiasi) condannato (art. 27 Cost.), segnano la definitiva presa di coscienza che siamo di fronte a fenomeni criminosi che necessitano di essere contrastati non solo sul fronte della repressione punitiva, ma anche (o, forse, soprattutto), su quello culturale e psicologico.
Ed è proprio su questo terreno che ritengo si collochi la sfida più importante che dev’essere colta per combattere un fenomeno criminale e criminogeno che umilia la nostra civiltà e che obbliga tutti a interrogarsi sulle cause che lo alimentano, prim’ancora che sui modi per fermarne gli autori.
Nel documento informativo pubblicato dal Ministero dell’Interno in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, celebratasi il 25 novembre 2021 per volere dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999), vengono resi noti i dati statistici relativi alla commissione dei c.d. reati spia della violenza contro le donne, ovverosia di quei delitti “che sono indicatori di una violenza di genere, in quanto potenziale e verosimile espressione di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica diretta contro una donna in quanto tale: gli atti persecutori (art. 612-bis), i maltrattamenti contro familiari e conviventi e le violenze sessuali” (v. Il punto. La violenza contro le donne, Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, 26 novembre 2021).
Ebbene, è sconcertante apprendere che il numero, elevatissimo, dei procedimenti avviati per tali reati è rimasto pressoché invariato nell’ultimo biennio: 13.990 per atti persecutori (c.d. stalking), 18.372 per maltrattamenti contro familiari e conviventi e 3.936 per violenza sessuale. Senza contare tutti quegli episodi che certamente sono rimasti nell’ombra, ad incrementare la cifra oscura formata da tutte quelle vittime che ritengono di non avere la possibilità o che non trovano il coraggio per denunciare il loro aguzzino.
È dunque evidente che l’ordinamento, pur con la buona volontà del legislatore, dei magistrati, delle forze dell’ordine e degli operatori sociali non è in grado di debellare, da solo, un fenomeno che affonda le radici nell’ambito di relazioni snaturate dalla mancanza di rispetto, di cultura e, talora, da tratti patologici della personalità dei relativi protagonisti.
Ecco, dunque, che l’intervento sul terreno dell’educazione e della cura dei responsabili di tali brutture è senz’altro da accogliere con gran favore, perché, oltre a stigmatizzarne l’operato, si fa carico di dialogare con le ragioni profonde che ne hanno determinato l’agire.
Ed è proprio in questa prospettiva che l’utilizzo della parola femminicidio potrebbe rivelarsi fuorviante, distogliendo l’attenzione non solo dalla complessità del fenomeno che abbiamo di fronte, ma anche da quanto ciascuno può e deve fare per rendersi parte attiva del processo di trasformazione culturale indispensabile per contrastarlo.
Difatti, siccome il femminicidio, inteso (più o meno consapevolmente) come sinonimo di una particolare tipologia di omicidi realizzati nei confronti delle donne, rappresenta solo l’epilogo drammatico di una ben più dilagante e insidiosa manifestazione di soprusi e violenze realizzati nell’intimità domestica e delle relazioni umane, è necessario non solo deprecarne la realizzazione (il che appartiene all’ovvio); ma, anzitutto, occorre la presa di coscienza che per contrastarne la diffusione è indispensabile che ciascuno faccia quanto in suo potere per fermare il diffondersi di una spirale di violenza che si alimenta delle più svariate forme di svilimento della figura femminile nel quotidiano.
Si tratta di una presa di coscienza che, per essere pragmaticamente efficace, deve tradursi in azioni concrete, a partire dal contesto in cui maggiormente attecchiscono i reati spia della violenza contro le donne: le relazioni familiari.
È un obbiettivo che dev’essere perseguito anzitutto insegnando ai figli (soprattutto ai figli maschi) la centralità del ruolo della donna in famiglia e, di riflesso, nella società. In quest’ottica, non è forse (troppo) provocatorio affermare che si tratta di un percorso che inizia dai piccoli gesti quotidiani, educando i nostri figli a rifarsi il letto, ad apparecchiare e sparecchiare tavola, in una parola, a contribuire al menage di ogni giorno nel rispetto di tutti.
Occorre ritornare alle fondamenta delle relazioni umane, non solo per ricordare (non solo urlandolo nelle piazze) che uomo e donna hanno pari dignità, ma anche per abbattere definitivamente gli stereotipi che alimentano, talora in modo subdolo, la cultura della supremazia di un genere sull’altro.
Su queste basi, liberate da stereotipi e preconcetti, si deve innestare un percorso di rinnovamento culturale che, passando dalla formazione nelle scuole, deve estendersi sino ad abbracciare lo sforzo di far acquisire alle vittime di violenza la consapevolezza della loro condizione e della possibilità di fidarsi di un sistema giudiziario, che, anche grazie alle più recenti riforme, è dotato degli strumenti necessari per farsi carico delle loro denunce e di perseguirne efficacemente i responsabili.
Si tratta, insomma, di passare dalla condanna (a parole) del femminicidio, al superamento delle condizioni in cui attecchiscono i germi della non-cultura che si esprime attraverso la mancanza di rispetto della donna e del ruolo che le compete nella civiltà contemporanea.
Maurizio Riverditi