
I dati in Piemonte sono eloquenti: nel 2020 i morti sono stati 66 mila, i nati 27 mila – Una donna su quattro senza prole – La crisi economica, la carenza di servizi sociali
La pandemia, con il suo carico di morti, la diminuzione nello stesso periodo dei matrimoni e delle nascite, scese per la prima volta dall’unità d’ Italia sotto le 400 mila, la contrazione dei flussi migratori, oltre ovviamente alla crisi economica che non passa. Sono gli elementi che hanno favorito un’ulteriore flessione della popolazione in Italia, paese che, com’è noto, è da tempo in recessione demografica. I residenti, infatti, sono in calo costante dal 2014, quando si contavano 60,3 milioni contro i 58 milioni 983 mila del gennaio 2022. Si parla, secondo i dati Istat, di 253 mila abitanti persi in un anno; un calo che nei due anni della pandemia ammonta a quasi 616 mila unità.
Numeri preoccupanti sotto molti punti di vista che si aggiungono a un’età media della popolazione in ulteriore ascesa: 46,2 anni al 1° gennaio 2022, particolarmente penalizzante per le nuove nascite dato che per le donne l’età fertile si colloca nella fascia d’età 15-49.
Gli esperti definiscono questa tendenza con il termine di “trappola demografica“: un forte calo di nascite produce a sua volta un contingente di donne meno numerose che, anche a parità di tasso di fecondità, concepiranno in futuro un numero sempre minore di nati.
Sono cifre che non risparmiano il Piemonte, ormai entrato in una spirale demografica di denatalità e dove i dati eccezionali degli ultimi anni vanno ad aggravare una tendenza che ormai affligge la regione da oltre dieci anni.
Dal 2011, infatti, si è cominciato ad assistere ad un forte calo delle nascite, accompagnato da un costante aumento delle morti. In controtendenza rispetto al primo decennio del secolo, quando c’era stato invece un miglioramento degli indicatori di natalità sostenuto soprattutto dalle donne straniere. Il 2020 è stato l’anno peggiore di sempre: 66 mila morti e 27 mila nascite, ovvero una perdita di 9 residenti ogni mille abitanti, un poco invidiabile secondo posto dopo la Liguria (-11,3 ogni mille).
Tra le province, Cuneo, Novara e Torino si confermano quelle con i più alti tassi di natalità, con una media di 6.7 neonati per mille abitanti, mentre in coda troviamo Alessandria, Biella e Verbano Cusio Ossola, che si aggirano attorno ai 5,3 bambini ogni mille abitanti. In media, in Piemonte, quasi una donna su quattro non ha figli.
Ma la posizione relativamente buona del capoluogo non deve trarre in inganno, perché Torino continua a perdere abitanti. Alla fine del 2021 i residenti in città erano 861.577 (in maggioranza donne: 449 mila), oltre cinquemila in meno rispetto agli 866.772 registrati alla fine del 2020.
Una crisi che arriva da lontano. Dal 1971, quando Torino fece registrare 1.167.968 abitanti, spinti dal boom industriale, è iniziata lenta e poi sempre più rapida, la discesa, con pochi periodi di relativa ripresa che tuttavia hanno solo arginato il fenomeno senza riuscire a invertire la tendenza.
Nel 1991, vent’anni dopo, gli abitanti erano 962 mila, nel 2010 908 mila e tra il 2011 e il 2021, in dieci anni, la città ha perso circa 55 mila abitanti.
La crisi economica in atto, poi, sembra anche più grave vista nel contesto delle regioni del Nord: nel 2019 il Piemonte ha prodotto un valore aggiunto pari a 123,4 miliardi di euro: un terzo di quello prodotto in Lombardia (357,3) e inferiore di circa il 20% a quelli prodotti in Veneto ed in Emilia-Romagna. E, nello stesso anno, nella regione lavorava il 63,8% della popolazione tra i 15 e i 64 anni. Un livello tra i più bassi, superiore solo a quello delle Marche.
Tuttavia, non si tratta solo e sempre di meri fattori economici, ma incidono molto anche i servizi, o meglio, la loro mancanza. In Piemonte tra i bambini da zero a tre anni solo 2 su 10 frequentano il nido e la regione è all’ottavo posto in Italia per impedimenti al lavoro delle donne in età fertile e al 12° per utilizzo di servizi all’infanzia.
Spesso, come sottolineano molte giovani donne, questa carenza incide sulla possibilità di conciliare la vita familiare con un percorso professionale soddisfacente e porta a mettere al primo posto il lavoro, rimandando la maternità a improbabili tempi migliori. Tanto più se come spesso accade, è precario e soggetto a ricatti più o meno espliciti da parte del datore di lavoro.
Emanuela Naldini, sociologa dei processi comunicativi all’Università degli Studi di Torino, di recente in un’intervista al Corriere, ha illustrato bene questo meccanismo: «Quando ci sono i nonni bene, altrimenti quando sono in pensione, sono loro che hanno bisogno di aiuto. Il contesto generale può indurre a scegliere di non fare figli. È una rinuncia, certo, ma stiamo conducendo una ricerca in Università: la quota di donne che ha scelto di non avere figli per dedicarsi a una carriera importante è alta. Ma è il contesto che spinge a fare scelte di questo genere. Loro stesse si chiedono come avrebbero potuto svolgere incarichi specie nei primi anni di vita del bambino. Si aggiunge anche la cultura di genere. Il papà è oggi presente nel gioco ma non nella gestione familiare. I loro congedi in Piemonte hanno ancora cifre ridicole».
Carla Reschia.