CULTURA

IL MAFIOSO NEL LIBERO MERCATO DIVENTA UN ABILE IMPRENDITORE

By 24/04/2023Aprile 26th, 2023No Comments

La sfida della legge antimafia, della magistratura e delle Forze di Polizia – Massima restrizione e  attenzione nel seguire “dove vanno i soldi” – Al nord in diminuzione i reati nell’edilizia che crescono invece al sud – Positiva la prevenzione con le “Informazioni interdittive”

Le principali organizzazioni criminali hanno mutato nel tempo il loro modus operandi, assumendo le sembianze di imprese multinazionali, in grado, grazie alle opportunità offerte dal mercato internazionale, di specializzarsi, crescere ed espandersi, infiltrandosi nel mondo economico legale, così da raggiungere il loro primario obiettivo: il profitto attraverso il riciclaggio del denaro proveniente dagli affari illeciti. Conseguentemente, la distinzione tra criminalità economica, intesa come complesso degli illeciti commessi da enti collettivi nell’ambito delle proprie attività imprenditoriali, ed economia criminale tende ad assottigliarsi, stante il crescente sviluppo dei rapporti tra criminalità organizzata e imprese, soprattutto in presenza di sistemi economici sempre più fluidi.
In tale scenario la legislazione e la relativa attività antimafia non possono prescindere dal nesso mafia-impresa, proprio per il fatto che sempre più spesso il principale sostentamento delle organizzazioni criminali deriva dal reimpiego dei capitali illeciti in attività almeno formalmente legali.
Analogamente non si può trascurare neppure la progressiva espansione della presenza di associazioni criminali di stampo mafioso in aree territoriali estranee a quelle di tradizionale radicamento: gruppi criminali che operano al Nord e Centro Italia, non solo alle dipendenze della “casa madre”, ma anche in piena autonomia, replicando i modelli e i metodi tradizionali e ricalibrandoli rispetto ai nuovi contesti di accoglienza, con conseguente crescente diffusione dell’inquinamento dell’economia legale. Emblematiche in tal senso sono state le risultanze processuali emerse con il processo “Aemilia” in Emilia Romagna ed il numero crescente di interdittive antimafia emesse nella regione. Tra i “fattori di contesto” che favoriscono il radicamento delle mafie nell’economia legale si annoverano il dinamismo economico dei mercati locali nell’area di riferimento, l’elevato grado di rischio connesso alla gestione di traffici illeciti e il conseguente dirottamento verso “coperture” legali delle attività dei sodalizi. L’odierno core business delle organizzazioni criminali si identifica, infatti, nella capacità di infiltrarsi nelle attività imprenditoriali, per ottenere posizioni monopolistiche o comunque fortemente dominanti sul mercato (si pensi al settore dell’edilizia e, più recentemente, a quello petrolifero), nonché sul versante politico-istituzionale, al fine di ottenere una certa opacità dei meccanismi di gestione delle risorse pubbliche per orientare talune scelte a proprio vantaggio. L’imprese mafiosa, in sintesi, gode di tre elementi differenziali, che costituiscono i suoi peculiari vantaggi competitivi: la creazione di una copertura protezionistica, mediante la forza di intimidazione, intorno al mercato di pertinenza, in modo da realizzare uno scoraggiamento della concorrenza, una  compressione salariale realizzata principalmente sottraendosi agli oneri contributivi, grazie al ricorso al c.d. lavoro nero, e una maggiore solidità ed elasticità finanziaria rispetto ad una normale piccola o media impresa, in quanto la maggior parte del denaro investito proviene da attività illecite, con gravi danni alla concorrenza ed all’economia “sana”.
L’esigenza di contrastare le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche nelle loro attività economiche, è stata pertanto avvertita fin dalla metà degli anni ’60 del secolo scorso ed è sfociata in un susseguirsi di interventi normativi che hanno trovato il loro culmine nell’adozione del Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante il “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia” e dei successivi decreti integrativi e correttivi. La lotta al fenomeno mafioso, con specifico riguardo all’ambito economico, risale originariamente alla Legge 31 maggio 1965, n. 575, c.d. Legge antimafia, con la quale venne, per la prima volta, prevista la  decadenza di diritto da licenze, concessioni e iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche per quei soggetti colpiti da una misura di prevenzione di cui alla Legge 27 dicembre 1956, n. 1423. Tuttavia, anche a causa dell’allarme sociale venutosi a creare in conseguenza del continuo espandersi negli anni ’70 del fenomeno mafioso, si compresero i limiti della citata normativa, in quanto la sola misura della decadenza delle licenze già conseguite non impediva alla criminalità organizzata ad acquisirne di nuove e, di conseguenza, di accrescere le proprie fonti lecite di approvvigionamento. Pertanto, prima, con la Legge 13 settembre 1982, n. 646, c.d. “Legge Rognoni-La Torre”, (nota, in particolare, per avere introdotto nel codice penale la norma sull’associazione mafiosa) e, immediatamente dopo, con la Legge 23 dicembre 1982, n. 936, si introdusse uno strumento più incisivo per contrastare le ingerenze della criminalità organizzata nella contrattazione pubblica: si imponeva alle Pubbliche Amministrazioni, in procinto di adottare licenze e/o autorizzazioni e di stipulare contratti di appalto, di richiedere al Prefetto una specifica documentazione, la “certificazione antimafia”.
Si affidava al Prefetto il compito di comunicare alle pubbliche amministrazioni competenti l’esistenza di provvedimenti ostativi ad autorizzazioni, appalti, ecc., acquisiti attraverso un flusso di informazioni che passava dagli uffici giudiziari alle questure e da queste ultime alle prefetture.
La trasformazione, nel tempo, delle mafie storiche in piattaforme finanziarie ed imprenditoriali ha comportato, conseguentemente, la continua evoluzione delle cosiddette informazioni antimafia, trasformate dalle riforme del legislatore (e dalle interpretazioni della giurisprudenza) in uno strumento che va ad anticipare al massimo l’agire preventivo dello Stato, condividendo con le misure di prevenzione la logica spiccatamente cautelare.
Nel 1994, con il Decreto Legislativo n. 490, si provvedeva a distinguere i contratti in fasce di valore, individuando parimenti quelli esenti dall’obbligo di certificazione, quelli rientranti nella fascia intermedia sottoposti al rilascio della certificazione antimafia e quelli della fascia superiore oggetto della c.d. informazione. Quest’ultimo tipo di documentazione, oltre a coprire l’ambito della comunicazione, ha spinto anche alla valutazione della sussistenza del c.d. “tentativo di infiltrazione mafiosa” (art. 4). Negli anni successivi la legislazione antimafia è stata affinata sino a confluire nel vigente Codice antimafia (D.Lgs. 6 ottobre 2011, n. 159) che, come anticipato, ha operato una reductio ad unitatem del previgente e frammentario quadro normativo. Infatti, sotto il vigore della precedente normativa si potevano distinguere tre forme di informative interdittive: le interdittive ricognitive di cause di divieto la cui evidenza cagionava automaticamente la decadenza del rapporto con la pubblica amministrazione (o impediva il suo costituirsi), le interdittive che, non operando automaticamente, costituivano manifestazione di potere discrezionale da parte del Prefetto, qualora egli avesse desunto dai propri accertamenti la presenza di un’infiltrazione mafiosa nell’impresa e le c.d. informative atipiche, nelle quali il Prefetto, pur ravvisando l’assenza di cause ostative, segnalava all’Amministrazione interessata la presenza di alcune criticità; tali elementi sarebbero poi divenuti oggetto di valutazione discrezionale da parte della stessa Amministrazione. Il Codice delle leggi antimafia ha abrogato le interdittive atipiche attribuendo alle informative interdittive sempre un carattere vincolante.
Nell’ottica di una vis espansiva delle informative prefettizie, si colloca anche la Legge 17 ottobre 2017, n. 161. La ratio di quest’ultima è il rafforzamento della lotta alla criminalità organizzata attraverso l’ampliamento delle situazioni sottoponibili alle verifiche antimafia di natura amministrativa riversanti, poi, nell’emanazione di una interdittiva antimafia. Infine con il D.L. 152/2021, per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, convertito nella Legge 29 dicembre 2021, n. 233 sono state introdotte alcune importanti modifiche volte a trovare un punto di equilibrio tra la prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa ed il  rispetto dei tempi per i progetti previsti per il Recovery, dovendosi peraltro uniformare al Diritto dell’Unione Europea in materia di contraddittorio. La prima modifica è, infatti, diretta ad introdurre il principio del “contraddittorio” per l’emissione delle interdittive antimafia e l’altra, come definita nella rubrica del nuovo art. 94 bis, di “Prevenzione collaborativa”. In particolare, il principio del contraddittorio endo-procedimentale ripristina la tutela del principio del contraddittorio in materia di informative antimafia laddove è stata da più parti denunciata la compressione del diritto di partecipazione dell’interessato al procedimento amministrativo. Difatti, è stabilito che laddove la partecipazione procedimentale non contrasti con l’urgenza di provvedere e con le particolari esigenze di celerità del procedimento per bloccare un grave, incontrollabile o imminente pericolo di infiltrazione mafiosa e, dunque, non ostacoli la ratio stessa dell’informazione antimafia quale strumento di massima tutela preventiva nella lotta contro la mafia, il Prefetto, senza disvelare gli elementi che possono pregiudicare attività processuali o gli altri accertamenti, dovrà garantire alle imprese un contraddittorio. Al termine del contraddittorio il Prefetto potrà, se non decide per la liberatoria, o applicare le misure di cui all’art. 94 bis oppure emettere l’interdittiva. L’impresa avrà 20 giorni di tempo per produrre le proprie memorie, o chiedere l’audizione, al fine di replicare su quanto viene ritenuto sintomatico di infiltrazione mafiosa. La seconda modifica risponde alla finalità di sottrarre alle mafie le aziende prima che siano completamente contaminate, attraverso misure amministrative di “prevenzione collaborativa” in caso di contiguità occasionale, ossia quando vi sia un contatto estemporaneo tra il soggetto economico e la criminalità organizzata ed è questo concetto che rappresenta l’elemento su cui poggia la diversificazione della scelta delle misure prefettizie anti-infiltrazione mafiosa introdotte dal nuovo art. 94 bis. In tal caso vengono prescritte all’azienda, per un tempo non inferiore a sei mesi e non superiore ai dodici mesi, alcune misure. Nello specifico, ad esempio, si richiede l’adozione e l’attuazione di misure organizzative atte a liberarsi delle cause condizionanti, oppure una serie di comunicazioni da far pervenire al Gruppo Interforze istituito presso la prefettura competente.
In un’ottica di pura prevenzione, non ci si limita ad affidare il carico di emendamento alla sola impresa attenzionata, ma si aggiunge la possibilità per il Prefetto di nominare degli esperti, in un numero non superiore a tre, con funzioni di supporto. Viene inoltre precisato che le esposte misure verranno a cadere se il Tribunale dispone il controllo giudiziario ex art. 34 bis comma 2 lettera b). Se, invece, non interviene il controllo giudiziario disposto dal Tribunale e, alla scadenza del termine, le misure preventive adottate hanno “bonificato” le anomalie riscontrate, l’impresa gioverà del rilascio della liberatoria. Da quanto detto finora si può affermare che l’interdittiva antimafia svolga una funzione di “frontiera avanzata” nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato e si sostanzia in un provvedimento amministrativo di natura preventiva del Prefetto, che ha la finalità di tutelare l’ordine pubblico, la libera concorrenza tra le imprese e il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Detto provvedimento fonda la motivazione su una valutazione probabilistica di indizi gravi, precisi e concordanti; non ha natura afflittiva, ma tende a impedire che la criminalità organizzata penetri e si infiltri all’interno dell’ economia legale. La discrezionalità amministrativa conferita dalle norme del Codice Antimafia ha indotto la  giurisprudenza ad elaborare criteri per stabilire la legittimità delle valutazioni compiute dagli organi di governo in sede di interdittiva: così come sostenuto dal Consiglio di Stato, infatti, la valutazione compiuta dal Prefetto è “sindacabile in sede giurisdizionale in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti”, mentre al giudice amministrativo è precluso l’accertamento dei fatti posti a fondamento dell’atto. La costante giurisprudenza del Consiglio di Stato 1 ha chiarito che il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa. Quanto alla concezione probabilistica, il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 4483 del 2017, ha stabilito che in caso di adozione di misura interdittiva “l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale”. La cornice normativa è definita dal comma 3 dell’art. 84 del D.Lgs n. 159/2011 e consiste “nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 91, comma 6,nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4”.
Le cause di decadenza, come precisato dall’art. 67 richiamato dall’art. 84, riguardano “licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni di cui al comma 1, nonché il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e sub-contratti, compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera.”
Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del D.Lgs n. 159 del 2011), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che “può” desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del D.Lgs n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali “unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”. Tuttavia, il D.Lgs n. 159 del 2011 prevede anche, nell’art. 84, comma 4, lett. d) che gli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa, anche al di là di quelli previsti dall’art. 91, comma 6, possano essere desunti anche «dagli accertamenti disposti dal Prefetto».
Del resto l’atipicità della capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini impone, a servizio delle prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici. Una menzione a parte meritano, poi, i c.d. “reati spia”, ovvero “condotte che riflettono in sé il pericolo di infiltrazione mafiosa, in quanto si tratta di fattispecie che destano maggiore allarme sociale, intorno alle quali con maggiore regolarità statistica gravita il mondo della criminalità organizzata di tipo mafioso”, di cui all’art. 84, comma 4, lett. a) del Codice Antimafia, il quale stabilisce che il pericolo di infiltrazione mafiosa sotteso all’adozione di informazione antimafia interdittiva è desunto “dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli articoli 353, 353-bis, 603-bis, 629, 640-bis, 644, 648-bis, 648-ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12-quinquies del decreto- legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356”. In questo sistema di prevenzione opera il Gruppo Interforze Centrale, istituito presso il Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, che provvede, in attuazione dell’art. 1, comma 385, della legge 27 dicembre 2017, n. 1 Cfr., a titolo d’esempio, la sentenza N. 01743/2016 del Consiglio di Stato (Sez. Terza) 205, al monitoraggio, alla raccolta e all’analisi delle informazioni relative ai controlli antimafia sugli appalti pubblici e sui relativi subappalti per la realizzazione di opere e interventi di massimo rilievo per la gestione ed il recupero di aree colpite da calamità naturali o altre emergenze. La duplice mission che il GIC si prefigge è costituire, a livello centrale, un patrimonio di analisi delle informazioni ricevute dalle Prefetture e dai rispettivi Gruppi Interforze Antimafia e supportare l’attività dei Prefetti nella definizione delle istruttorie antimafia, fornendo gli approfondimenti, volta per volta ritenuti opportuni, attraverso modalità operative che, andando oltre i preliminari controlli procedano all’acquisizione dei provvedimenti giudiziari, al monitoraggio delle variazioni degli asset aziendali, all’analisi dei negozi giuridici e delle cessioni dei rami d’azienda, dei noli acaldo e a freddo, dei trasferimenti e dell’impiego della forza lavoro, ottenendo una più ampia analisi di contesto volta anche ad individuare la creazione di eventuali cartelli o monopoli di imprese infiltrate dalla criminalità organizzata. Il 2022 ha rappresentato un banco di prova importante sul fronte dell’applicazione delle misure interdittive antimafia, in ragione delle modifiche normative apportate per effetto del sopracitato decreto legge 6 novembre 2021, n. 152 2 , che ha consolidato il principio del contraddittorio nell’ambito del procedimento di rilascio dell’interdittiva antimafia ed introdotto lo strumento giuridico della prevenzione collaborativa, laddove i tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale. L’analisi effettuata dal GIC del Servizio Analisi Criminale relativa all’andamento statistico del numero delle imprese interdette nell’ultimo biennio (2021-2022), partendo dall’esame dei provvedimenti registrati nella BDNA 3 , dei codici Ateco 4 delle imprese interdette, dalla ripartizione territoriale delle stesse a livello nazionale, regionale e provinciale, dall’incidenza delle diverse organizzazioni criminali rispetto al numero delle imprese interessate dal provvedimento prefettizio in questione ha restituito un risultato di assoluto interesse. In particolare a fronte di una complessivadiminuzione del numero delle imprese interdette su base nazionale, si è registrata una significativa
controtendenza in aumento in alcune specifiche realtà del Paese, quali ad esempio quelle insistenti in Emilia Romagna.
Il 2022 ha rappresentato un banco di prova importante sul fronte dell’applicazione delle misure interdittive antimafia, in ragione delle modifiche normative apportate per effetto del sopracitato decreto legge 6 novembre 2021, n. 152 2 , che ha consolidato il principio del  contraddittorio nell’ambito del procedimento di rilascio dell’interdittiva antimafia ed introdotto lo strumento giuridico della prevenzione collaborativa, laddove i tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale. L’analisi effettuata dal GIC del Servizio Analisi Criminale relativa all’andamento statistico del numero delle imprese interdette nell’ultimo biennio (2021-2022), partendo dall’esame dei provvedimenti registrati nella BDNA 3 , dei codici Ateco 4 delle imprese interdette, dalla ripartizione territoriale delle stesse a livello nazionale, regionale e provinciale, dall’incidenza delle diverse  rganizzazioni criminali rispetto al numero delle imprese interessate dal provvedimento prefettizio in questione ha restituito un risultato di assoluto interesse. In particolare a fronte di una complessiva diminuzione del numero delle imprese interdette su base nazionale, si è registrata una significativa controtendenza in aumento in alcune specifiche realtà del Paese, quali ad esempio quelle insistenti in Emilia Romagna. Sebbene il numero complessivo delle imprese colpite da provvedimento antimafia nell’anno 2022 sia pari a 813, ovvero al 21,83% in meno rispetto alle 1040 del 2021, l’Emilia Romagna, nell’anno 2022 è risultata essere la prima regione, con 153 imprese interessate da interdittiva, pari al 18,82% del totale. Il 2022 si è quindi caratterizzato per un aumento del numero delle interdittive nelle regioni del Nord ed una diminuzione in quelle del Sud. Le attività economiche maggiormente interessate dai provvedimenti in questione, si sono confermate quelle relative alla “costruzione di edifici” e più in generale, quelle che interessano il comparto edile, mentre le imprese maggiormente colpite sono state quelle esercitate sotto forma di impresa individuale.
La mappa delle imprese colpite da interdittiva, disegnata sulla base delle organizzazioni criminali di riferimento nei singoli provvedimenti ha confermato, anche per il 2022, la prevalenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa di matrice ‘ndranghetistica, pari a oltre il 40% del totale.

Stefano Delfini
Direttore del Servizio Analisi Criminale
Dirigente Superiore della Polizia di Stato