CULTURA

Immigrati: mondo da offrire al lavoro. Torino al centro di una nuova speranza

By 25/01/2022No Comments

Storie di contraddizioni, di avversità e di accoglienza. Dalle quarantene degli italiani in USA alle fughe dalle guerre di africani, afgani, libici, in cerca di una vita di studio, di lavoro, di crescita – Nazionalità e “Ius soli”: due problemi ancora irrisolti

IMMIGRAZIONI. Da sempre hanno sconvolto il mondo, unito e diviso etnie, culture diverse, modificato usi e costumi, cambiato le sorti di molti uomini e donne, creato grandi nazioni, dato vita alla politica della solidarietà, dell’accoglienza, non sempre praticata in modo intelligente e sistematico. Ma, nel contempo, hanno sub󠆝ito avverse politiche di intransigenza, di cinica, metodica chiusura, azioni violente da parte di Nazioni che hanno chiuso e tendono a chiudere le frontiere a difesa delle proprie radici, della propria “cultura” della propria economia, della propria sovranità. Nazioni, che senza alcun rispetto per la dignità umana, alzano muri, chilometri di filo spinato, quasi si compiacessero di ricordarci che il tragico rito dei campi di concentramento, non è del tutto finito. Hanno drammaticamente ragione: quel tempo non sembra essere finito!
L’immigrazione, da un continente all’altro, funziona sempre così. Le nazioni accoglienti – è storia vissuta da tutti i popoli – fanno tesoro del lavoro degli immigrati, alimentano l’economia, la libertà di circolazione, la democrazia con tutta le proprie fragilità, ma di cui nessuno può fare a meno. Le altre, le nazioni che respingono, non hanno capito i valori della vita, si oppongono con ferrea determinazione, si chiudono in se stesse, si difendono da popoli diversi, che dovrebbero amare. Fratellanza, libera circolazione delle idee e delle persone: tre punti fondamentali dell’intelligenza che alimentano il progresso.
E’ una gioia immensa constatare che nazioni in gran parte dell’Europa e dell’Occidente – l’Italia è fra queste – accolgono braccia e menti degli immigrati, agevolano gli adulti nel lavoro dei campi, nell’edilizia, nell’industria, avviano agli studi i ragazzi, li introducono nelle loro società, li conducono per mano fino all’università, li considerano doni d’una cultura diversa; ragazzi e ragazze che parlano due-tre lingue, che hanno a cuore le sorti della loro famiglie; persone che lavorano per aiutare genitori e parenti poveri residenti nelle nazioni d’origine.
E’ una gioia sentire bambini africani, siriani, arabi, indiani, peruviani, di altre nazioni, che parlano in italiano con le loro mamme, i loro papà, e sapere che si esprimono bene anche in francese e inglese. E’ una gioia constatare che queste persone dimostrano un invidiabile senso della famiglia e si uniscano agli italiani. Ragazzi, appena adulti, molti dei quali già nati in Italia, che riempiono le aule delle scuole, delle università, dei politecnici delle principali città italiane: Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Catania, Palermo. Universitari che hanno svolto il loro percorso di studi e che – tranne i casi dei rifugiati politici – attendono ancora la cittadinanza italiana e se non l’ottengono in tempo, dopo la laurea in medicina, ingegneria, giurisprudenza (ne conosco personalmente molti), sono costretti a iscriversi ad un’altra facoltà o a richiedere il permesso di lavoro per continuare a vivere in Italia. In attesa che la burocrazia faccia il suo lungo corso.
E’ una anomalia, un’ingiustizia che il legislatore dovrebbe abolire subito con una legge, qualunque sia la maggioranza che governerà questo Paese, visto che, anche in questo caso s’è perso un tempo infinito. Il tempo del letargo, del cervello portato all’ammasso, il tempo del risveglio e dei rinvii. Sovente si sente dire: è il tempo necessario perché gli immigrati si integrino. Lo dicono tutti: giornalisti, conduttori televisivi, politici, professionisti. “Gli immigrati si devono integrare”.
Integrazione, nell’accezione che comunemente le si dà, è una espressione infelice, da abolire dal nostro vocabolario. L’integrazione contiene in sé un’accezione negativa, di costrizione, di tutela, mentre bisognerebbe parlare di accoglienza umana e culturale.
Integrazione significa, nell’accezione positiva, incontrarsi, far propri i pregi e difetti dell’altro. Più culture, in una nazione, portano benessere, arricchiscono: e meglio ancora sarebbe, se ogni straniero – e ognuno di noi – potesse assumere più facilmente due/tre nazionalità, senza perdere la propria e senza attendere tempi biblici.
La plurinazionalità sarebbe un bene enorme anche per gli italiani più distanti da queste idee. Essere cittadini di un mondo libero non può essere più un’utopia, un’aberrazione antinazionalista. E’ un modo di vivere civile e vivibile negli emisferi del nostro Pianeta.
Ma è proprio sulla “concessione della nazionalità”, che l’immigrazione, in generale, provoca altre rigidità legislative e tentativi di compromessi mai risolti. Se finalmente si arrivasse ad una conclusione (positiva), l’Italia darebbe un forte segnale di emancipazione. Sarebbe naturale, ragionando in tal senso, che ai bimbi stranieri nati nel nostro Paese, si riconoscesse automaticamente la cittadinanza italiana, applicando il principio dello “Ius soli”. Cosa, che allo stato attuale delle cose, è ancora oggetto di dibattito giuridico e di contrasti politici tra i partiti, assolutamente ingiustificabili.
Lo “Ius soli” è un validissimo principio giuridico da applicare in Italia in tempi brevi e, certamente, non soltanto per ragioni di carattere economico, demografico etc, ma per un principio sacrosanto che vige da decine d’anni negli Stati Uniti, in Sud America, Canada e, in Europa, in Germania, Francia, Irlanda e Regno Unito e che darebbe, certamente, all’Italia un più ampio respiro demografico ed un aiuto economico, in prospettiva, interessante.
Né siamo i soli: in Svezia, Norvegia, Danimarca, nazioni tradizionalmente più simili, pur essendo tra i Paesi che più favoriscono l’arrivo di immigrati, il problema della nazionalità non è stato ancora risolto. E si pensi che la Svezia accoglieva nel 2015/2016, addirittura 23 “rifugiati” ogni mille abitanti, seguita da Malta, che ne accoglieva 18, mentre la Norvegia ne ospitava soltanto 11. Oggi, a causa della pandemia da Covid 19, i dati statistici forniti dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sono sostanzialmente cambiati in senso negativo. Segnalano che è Milano la metropoli in Europa che pratica la migliore politica di accoglienza dei rifugiati politici, inserendoli nelle loro professioni, generalmente, insegnanti, medici, ingegneri. Questa analisi statistica – complice una cattiva informazione – non è esente da errori, in base ai quali, l’opinione pubblica è convinta che la maggior parte degli immigrati cercano in Italia riparo dalle guerre e dalle dittature. Non è vero. L’Italia è la prima base di appoggio, il primo scoglio per salvarsi, ma poi, dopo lunghi periodi di “quarantena” nei cosiddetti “campi di accoglienza”, ripartono per l’Europa, mentre altri emigrano dai Paesi per trovare scampo in Sud America, a San Paolo, dove l’accoglienza trova meno barriere.
L’Italia, nazione che accoglie con favore gli emigrati, anche per la sua posizione geografica nel Mediterraneo e per i coraggiosi e infaticabili salvataggi della Sea Watch, Sea Eye 4 tedesca, di “Medici Senza Frontiera” dell’indimenticato Gino Strada – ma – è bene sottolinearlo – non è esente da pecche, da “vuoti legislativi, amministrativi e logistici” che si potrebbero colmare instaurando un “regime di pari diritti e pari doveri” tra italiani e stranieri, “rifugiati politici” e non. Con simili peculiarità lavorative, professionali, di studio, con l’aiuto di altre nazioni della UE, perfettamente coscienti che ogni sbarco dalla Libia, a Pozzallo, Lampedusa, Catania, Messina, provoca traumi e costi economici di difficile sostenibilità dall’Italia e dall’Europa, che pure stanzia considerevoli aiuti economici.
Purtroppo, la salvezza, nella maggior parte dei casi, scompare in mare. Il Mediterraneo è diventato un cimitero per migliaia di uomini, donne bambini, come ha più volte denunciato Papa Francesco: “Il Mediterraneo anziché un mare aperto all’incontro e diventato un freddo cimitero senza lapidi”.
E tuttavia, nonostante questi drammi quotidiani, le migrazioni si ripetono. Veri cicli storici, periodi più o meno lunghi, da cui nessuna nazione, in ogni Continente, può sottrarsi. Per ragioni diverse: a causa di quel senso di sopraffazione insita nell’uomo; per la devastante volontà di non cedere con ogni mezzo ad altri “spazi di vita propria”; massacrando milioni di inermi vite umane; ma anche a causa dei cambiamenti climatici cui si è dato poca attenzione, soprattutto negli ultimi trent’anni in cui la velocissima, visionaria economia globalizzata, ha scombussolato la mente di coloro (tutti noi) che avrebbero dovuto proteggere la natura, l’ambiente; tempi in cui sarebbe stato più facile comprendere scientificamente questi terrificanti fenomeni, che sovvertono abitudini di vita, provocano siccità e devastanti cicloni, sovvertono le stagioni.
I dati sono sconfortanti e peggiorano continuamente.
In Africa Centrale, nel Nord Africa, nel Sud continentale, in Afganistan si fugge verso l’Europa del nord, in Germania, in Francia, Belgio, Inghilterra, ritenute dagli stessi emigranti nazioni più sicure dell’Italia.
Torino, città dell’accoglienza con grandi difficoltà, gode fin dal ‘500 di dimensioni culturali mondiali, vanta architetture invidiate in tutto il mondo; personalità storiche del calibro di Erasmo da Rotterdam (si laureò all’Università di Torino; come Luigi Einaudi, Norberto Bobbio, Cesare Pavese ed i quattro Premi Nobel in medicina assegnati a Camillo Golgi, Salvatore Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini); il casalese Ascanio Sobrero, inventore della nitroglicerina, che lo scienziato svedese Alfred Nobel, stabilizzò creando la dinamite); scienziati di grande notorietà internazionale, ospiti nella sede della gloriosa Accademia delle Scienze.
Torino, città al centro delle contraddizioni sociali novecentesche, come altre del Piemonte, ha vissuto però anche l’accoglienza più nobile. Basti pensare ai grandi santi (Venerabile Tancredi Falletti di Barolo (1782 –1838) – Venerabile Giulia Falletti di Barolo (1785- 1864);San Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-842) fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza per dare asilo agli ammalati indigenti – San Giuseppe Cafasso (1811-1860) che si dedicò all’assistenza ai condannati a morte – San Giovanni Bosco (1815-1888) fondatore dei Salesiani dedicati all’educazione della gioventù – Beato Francesco Faà di Bruno (1825-1888) San Leonardo Murialdo (1828-1900) – San Giuseppe Marello (1844-1895 – Beato Giuseppe Allamano (1851- 1926) fondatore dell’Istituto Missioni della Consolata  – Beato Pier Giorgio Frassati (1901-1925).
Torino dai cicli storici, verso cui generazioni di siciliani, calabresi, pugliesi, napoletani, veneti, sono emigrati in cerca di lavoro, facendo, nella prima metà del ‘900, la fortuna della Fiat e delle industrie del terzo settore, seguite negli anni, da intere comunità di bulgari, romeni, africani di Camerun, Congo, Sud Africa, Marocco, Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia. Per non parlare della comunità cinese, assai forte, ma con una storia che si configura nella conquista dei mercati compositi mondiali controllati dallo Stato.
Persone che hanno comunque rivitalizzato il mercato di Porta Palazzo, uno dei più grandi d’Europa, dove banchi di frutta e verdura esotica e piemontese gareggiano per bontà con i prodotti freschissimi di Sicilia, Spagna, Marocco. Una catena della solidarietà e del commercio, partita dai porti della Sicilia e dal mediterraneo del Sud. Gli stessi porti che accolgono con grandi difficoltà logistiche gli emigranti, buona parte dei quali resta in Piemonte, mentre altri, e sono forze ingenti, tentano di trovare fortuna nel Nord Europa.
MIGRAZIONI. Sono state e sono un dono inestimabile, ma tutte, in origine, sono state provocate da guerre, dittature, difficoltà economiche, pandemie. Di storie personali e di intere comunità, ce ne sono tante. Una delle tante che ha segnato la mia fanciullezza, sperando non dia adito a fraintese ipotesi di megalomania: i nonni di Papa Francesco, astigiani, emigrarono in Argentina in cerca di fortuna. Argentina, Terra di accoglienza e di speranza per milioni di italiani; io, nipote di uno dei primi ispettori delle Ferrovie Italiane, catapultato in Eritrea da inconsapevole figlio dell’ex AOI (Africa Orientale Italiana) conquistata scioccamente con le armi, anziché amarla, come è poi avvenuto; Francesco ritorna in Italia da cardinale ed amatissimo Padre degli ultimi, dei diseredati, di coloro che soffrono e che muoiono, un papa “rivoluzionario”; io ritorno da Asmara in Italia a otto anni, profugo italiano, come i miei genitori, con la motonave Vulcania, a Napoli nel 1945, e, in carro bestiame, nella Palermo bombardata, distrutta dalla guerra, ma desiderosa come il resto d’Italia e con avversa fortuna, di riscattarsi, di guardare al futuro, di ricostruire ciò che per tragica volontà delle potenze mondiali era stato devastato.
Palermo e Torino: due simboli di una stessa Italia. Palermo, culla di una civiltà millenaria che, aperta al dialogo con tutti i popoli allora conosciuti, negli anni di fine ‘800, metà ‘900, ha esportato emigranti, desiderosi di emanciparsi e i mafiosi più crudeli. Capitale della stessa Sicilia che aveva generato nuovi emigranti nell’America accogliente, e al tempo stesso, vittima di sopraffazione, di violenze. Torino, la città che rifiutava emigranti italiani e stranieri e che oggi, nonostante tutto, li accoglie e abbraccia. Il Sermig, Il Cottolengo, la Comunità di Sant’Egidio, Il gruppo Abele e Libera di Don Ciotti, sono le realtà sociale e cristiane di Torino.
E’ dunque utopia sperare nell’Umanità? No, l’Umanità ha scritto un romanzo storico ricco di contraddizioni, ma che ci insegna ad avere vivo, il volto della speranza.

Armando Caruso

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