
Le acute osservazioni di un ragazzo dell’ateneo torinese: “Il disinteresse dello Stato verso i giovani” – “Se ne parla nei collettivi, su internet, nelle associazioni, ma nell’Ateneo la politica non entra” – I limiti dei social.
La politica è ciò che regola la nostra vita, ci influenza e ci circonda, è ovunque fuorché nei luoghi più importanti in cui si dovrebbe studiarla e capirla: le aule delle università. Centinaia di ore di lezione, decine e decine di crediti formativi, presunti dibattiti e conferenze: eppure nella maggior parte dei corsi di laurea non vi è un’ora dedicata all’attualità del panorama politico. Sì certo, nella facoltà di Scienze Politiche è materia di studio, ma non sempre si approfondiscono gli argomenti e i riferimenti a ciò che accade in Parlamento, sia nella politica estera che interna, non si può dire siano frequenti.
Si ritiene utile sottolineare che è politica non solo quell’ “attività direttiva autonoma” che regola uno Stato (Weber). Politica è ogni scelta quotidiana: che musica scegliamo di ascoltare, quali abiti indossare, quali temi trattare a lezione.
Ed è doveroso anche specificare che le nuove generazioni, per parlare di temi attuali, non hanno alcun bisogno di essere sottoposti al “controllo” paternalistico degli adulti. Qui però si tratta un punto diverso da analizzare: quali valori aggiunti può dare l’Università alla narrazione della politica?
Detto che nelle aule della cultura universitaria la politica non entra, è nei collettivi studenteschi, nelle associazioni e su internet che gli studenti ne parlano. In questo tipo di contesti le narrazioni hanno alcune caratteristiche costanti: la tendenza dei partecipanti a schierarsi a priori (anche se non richiesto), l’impostazione discorsiva di scontro a tutti i costi, la presenza di organizzatori con un’identità ideologica forte, il registro informale, la banalizzazione, l’edonismo e l’assenza di riferimenti teorici.
I temi si mischiano, si creano avversari ad hoc, l’eroe di turno, chi interviene utilizza un linguaggio colloquiale perché il pubblico fruitore lo impone.
La conseguenza è che qualsiasi argomento diventa motore di invettiva. Per esempio, il linguaggio utilizzato nel Decreto Rave si trasforma in un pretesto per definire “incompetenti” i membri del Governo. Una posizione legittima, ma adatta a situazioni sociali come bar o pizzerie, non certamente alle aule universitarie (occupate o meno) perché questo linguaggio fin troppo esplicito, toglie quella componente di approfondimento al dibattito, che all’interno del flusso
comunicativo di oggi, servirebbe come il pane.
La politica nella vita di un universitario passa anche per i canali social, anzi: la politica e l’attualità sono quasi del tutto sui social, la riunione in presenza è solo il momento di aggregazione finale. In questo canale però non c’è spazio né per il dialogo autentico né per l’approfondimento.
Il primo limite è la sintesi: un’infografica restringe al minimo le informazioni, sfruttando slogan memorizzabili ed evitando l’approfondimento.
Il secondo limite è l’edonismo che, attraverso il meme, un simbolo, si diffonde tanto, ma banalizza qualunque situazione, rappresentando l’eroe e l’oppressore, il buono e il cattivo, senza definirne i caratteri personali. Il terzo limite è il contesto, vale a dire i testi che precedono e seguono il concetto di riferimento, che invita chi ascolta a non approfondire, ma a rimanere in una sorta di sospensione del pensiero.
I fatti politici interessanti diventano così parte di quel “rumore” che Umberto Eco aveva definito nel 2009: “Informazioni una dietro l’altra, tutte presentate come scoop del secolo, che si sottraggono a vicenda. Risultato, tutto ciò di cui si dovrebbe parlare è silenziato”.
Se, invece, al microfono d’aula ci sono i professori le cose cambiano. Non solo nella trattazione degli argomenti, ma anche nella ricezione che ne hanno gli studenti. Prima di tutto chi insegna è percepito dall’alunno come autorevole; di conseguenza il tenore dei commenti e il livello di attenzione sono più alti. In secondo luogo il docente è in grado di aggiungere competenze specifiche: ogni disciplina ha un criterio di pertinenza particolare che applica ai fatti; arricchire il dibattito tra studenti e con questi codici di lettura, crea più chances per comprendere fenomeni complessi.
In terzo luogo la presenza del professore competente negli spazi dedicati all’attualità influenza il racconto che ogni studente fa di sé. Ogni partecipante sente di far parte di una storia che si compone, nel momento in cui accetta di partecipare, nel momento in cui acquisisce nuove informazioni, nel momento in cui si siede e interviene e nel momento finale in cui le sue idee dovrebbero diventare patrimonio comune.
Nel racconto dei momenti “autodidattici”, l’ultimo step è però quasi assente; non c’è un’autorità ritenuta attendibile che mandi un messaggio positivo a chi partecipa. Specie se si è alle prese con i primi raduni, ci si chiede: saranno affidabili le cose che si sono dette qui? Ho fatto bene a prendere parte a questo momento?
Quando c’è, il docente risponde di sì: lo spazio a cui si è partecipato è stato positivo e lo sanziona positivamente con la sua presenza. Inoltre aggiungere competenza ai discorsi sull’attualità può davvero sfruttare al meglio l’abilità social degli studenti, cambiando il racconto in rete della politica. Le strutture e il linguaggio rimarranno uguali, simboli, sintesi, meme. Si prenda la recente campagna “Pomodori rosso sangue” dell’attivista Diletta Bellotti. La performer, avvolta da un tricolore, andava in giro per le piazze facendosi riprendere mentre addentava un pomodoro da cui usciva sangue finto: dal punto di vista comunicativo è efficace, colpisce e disturba (quindi è virale), ma ogni elemento del messaggio è ragionato, riflette dinamiche sociologiche profonde che sono centrali per affrontare il tema. Il rosso della bandiera italiana… per dire che il caporalato è parte della cultura italiana, il pomodoro… come emblema dell’economia e dell’italianità che tutti apprezzano e di cui nessuno guarda le radici, il sangue… come risultato e prezzo per mantenere alto il nome del Bel Paese. Un fenomeno complesso è stato sintetizzato (ma non banalizzato) in un messaggio chiaro e perfetto per i social.
In conclusione la politica dovrebbe entrare di più nelle lezioni dei professori universitari: non per dare sfogo alle opinioni personali, ma per fornire mediazione di toni, competenza, abitudine all’analisi critica, schemi interpretativi. Le università sono forse l’unico luogo rimasto che possa fare da cuscino silenziatore contro quel rumore della politica banalizzata che finisce per assordare i cittadini e le cittadine più fragili.
Sandro Marotta