
Arduo per l’amministratore perseguire il fine dell’azienda e mantenere un equilibrio etico – Le perplessità di alcuni studiosi e i due significati contrastanti dell’espressione “sostenibilità” – Estremamente sensibili i criteri di valutazione sul piano giuridico
Il tema, assai risalente, della “responsabilità sociale d’impresa” (o CSR doctrine, dall’inglese Corporate Social Responsability) negli ultimi vent’anni è stato oggetto di considerevole interesse ed anche su questa rivista di recente ci sono stati autorevoli interventi sul punto (Frascinelli, Sviluppo sostenibile, ecosistemi, salute. Tutele nel rispetto di diritti e doveri).
Con l’espressione responsabilità sociale d’impresa si intende descrivere una politica aziendale che cerchi di gestire in modo efficace le problematiche d’impatto sociale ed etico tanto all’interno dell’impresa che nell’ambito locale nel quale la stessa opera e che è interessato dalle conseguenze potenzialmente dannose della sua attività.
Secondo la definizione fornitane dall’Unione Europea, una società attenta ai suddetti profili di responsabilità e sostenibilità cerca di soddisfare le esigenze dei clienti gestendo contemporaneamente le aspettative degli altri stakeholders tra cui il personale, i fornitori e la comunità locale di riferimento: come si legge nel libro verde della Commissione delle Comunità Europee del luglio 2001, “il concetto di responsabilità sociale delle imprese significa essenzialmente che esse decidono di propria iniziativa di contribuire a migliorare la società e rendere più pulito l’ambiente.
Nel momento in cui l’Unione europea si sforza di identificare valori comuni adottando una Carta dei diritti fondamentali, un numero sempre maggiore di imprese riconosce in modo sempre più chiaro la propria responsabilità e la considera come una delle componenti della propria identità. Tale responsabilità si esprime nei confronti dei dipendenti e, più in generale, di tutte le parti interessate all’attività dell’impresa ma che possono a loro volta influire sulla sua riuscita”.
Riflessi di questa impostazione sono presenti anche nell’esperienza del nostro paese.
Per il nuovo Codice di corporate governance italiano, infatti, la funzione dell’organo amministrativo della società quotata consiste, al vertice, nel «guidare la società perseguendone il successo sostenibile» (Principio I) e tale organo deve stabilire le strategie dell’emittente e del suo gruppo in coerenza con lo scopo di perseguire un successo sostenibile (Principio II), dove il successo sostenibile è espressamente definito come «l’obiettivo che guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società». Il successo sostenibile rileva poi ai fini della determinazione delle remunerazioni degli amministratori (e dei dirigenti apicali) e del funzionamento del sistema di controllo interno e di gestione dei rischi.
Va detto, tuttavia, che diverse voci autorevoli voci operatori e studiosi del diritto commerciale hanno manifestato nei confronti della categoria della responsabilità sociale dell’impresa – ovvero con riferimento a concezioni analoghe, che del pari intendono valorizzare da parte delle società commerciali il perseguimento dei cd. indici ESG o l’approccio long-thermism nell’attività imprenditoriali – un certo scetticismo.
In primo luogo, si evidenzia la pluralità di significati che possono attribuirsi alla nozione di “sostenibilità”, che rappresenta il profilo più rilevante della teoria in discorso e che ne definisce la portata e rilevanza operativa e con cui si può alludere tanto alla possibilità di garantire la prosecuzione dell’attività industriale, facendosi così riferimento alle scelte e determinazioni dei dirigenti necessarie per conservare l’equilibrio finanziario, quanto alle caratteristiche di un’impresa le cui esternalità non sono tali da pregiudicare (o, meglio, da contribuire a pregiudicare nell’orizzonte temporale considerato gli assetti naturali, ambientali, climatici, sociali, sanitari, dei diritti civili e via discorrendo.
Il problema è rappresentato dalla circostanza che con assoluta frequenza le esigenze connesse ai due diversi significati dell’espressione “sostenibilità” si presentano in contrasto ineludibile: se, infatti, in alcune circostanze può riscontrarsi una coincidenza fra la dimensione interna ed esterna della sostenibilità, nella gran parte dei casi il perseguimento di un obiettivo è di ostacolo al soddisfacimento delle altre esigenze in parola non foss’altro per il fatto che la tutela degli interessi degli stakeholders – connessi alla protezione dell’ambiente, alla sicurezza sul lavoro, ecc. – determina l’inevitabile aumento dei costi da sostenere per l’esercizio dell’attività imprenditoriale, di talché si può pervenire ad una riduzione delle esternalità negative, rendendo la impresa sostenibile nella prospettiva ambientale, solo se si accetta al contempo di pregiudicarne la sua redditività e di incidere quindi senso negativo sulla sostenibilità economica dell’esercizio imprenditoriale.
In sostanza, la social sustainability può richiedere azioni e imporre scelte che vanno a detrimento della enviromental sustainability: si appalesano dicotomie e conflitti anche tra sostenibilità sociale e sostenibilità ambientale ed in questo caso si dovrà necessariamente decidere a quale sostenibilità — ambientale, sociale o economica, per limitarci alle tre grandi suddistinzioni — dare la prevalenza.
Non solo. Quando si evoca il rispetto del principio di sostenibilità e dei criteri di ESG quali elementi della governance aziendale si rischia di trascurare la considerazione che la governance è l’insieme delle tecniche, dei presidii e dei meccanismi volti a ovviare ai diversi problemi di agenzia (che i rapporti societari fanno inevitabilmente sorgere), riducendone i relativi costi onde migliorare la posizione del socio, in quanto socio, coerentemente alla classica concezione contrattualista dell’interesse sociale, ossia la concezione che riconduce l’interesse della società a quello dei soci.
Di conseguenza, mirare alla governance nella gestione e nell’investimento in una società non fa che aumentare lo shareholder value; viceversa, gli obbiettivi relativi ai profili ambientali e sociali ampliano il novero degli interessi da prendersi in considerazione da parte degli organi sociali e, quindi, presuppongono il perseguimento (anche) dello stakeholder value, che però, come detto, spesso si pone in contrasto con lo shareholder value.
Queste considerazioni spiegano perché alcuni ritengano sul piano giuridico parlare di responsabilità sociale d’impresa risulti poco significativo, non potendosi ricavare da tale formula una reale guida ex ante all’operato degli amministratori, né — tantomeno — può essere invocata per valutarne ex post le decisioni o l’adempimento dei propri doveri. In effetti, anche se la CSR doctrine pare rappresentare la sintesi di iniziative spontanee delle grandi imprese, con le quali si sacrificano interessi economici in alcuni settori o contesti geografici, in cambio della realizzazione di obiettivi di lungo termine, la cui meritevolezza è universalmente condivisa, si è comunque in presenza di iniziative che si collocano in contesti normativi frammentati e carenti ed il tasso di vincolatività delle regole concordate di comportamento — che è il problema principale della loro effettività — è molto fragile sul piano delle sanzioni giuridiche in senso stretto, che spesso non esistono e comunque non sono rinvenibili nel nostro ordinamento.
Occorre quindi riconoscere che, quanto meno nell’ordinamento italiano, non sembra essersi realizzato, a livello di disciplina della governance societaria, un passaggio da una concezione volontaristica della sostenibilità ad una effettività di tutela degli interessi degli stakeholders attraverso la previsione di specifici doveri per gli amministratori, tanto da potersi sostenere che le uniche conseguenze in caso di mancato rispetto dei criteri di ESG sono rinvenibili sul solo piano reputazionale (dell’azienda e/o dei dirigenti), stante la possibile disapprovazione degli stakeholders dalla quale possono derivare conseguenze negative a catena di vario genere, con anche un possibile crollo dei profitti
Oltre questa forma di riconoscimento della CSR doctrine quale possibile presupposto per interventi di soft law da parte delle associazioni di categoria non pare possibile andare, né paiono ipotizzabili interventi del legislatore in grado di fornire maggiore spessore alla categoria delle responsabilità sociale d’azienda onde ipotizzare forme di reazione e sanzioni in caso di adozione da parte delle aziende di condotte incompatibili con la stessa. La genericità delle nozioni di sostenibilità, responsabilità sociale ecc. non consente alle stesse di incidere sulle scelte degli amministratori, né di fungere da parametri di giudizio circa le scelte degli stessi ed il richiamo a forme di tutela di interessi collettivi da parte di un’azienda “responsabile”, se contenuto in precisi limiti si traduce in un innocuo e poco significativo incitamento all’impresa di assumere comportamenti ad alta valenza etico-sociale, mentre se si vuole ricavarne una guida per la condotta degli amministratori societari ed un criterio di giudizio per le loro determinazioni si finisce per attribuire a costoro una eccessiva discrezionalità posto che l’invocazione della tutela di troppo diversificate categorie di interessi (stakeholderism) di cui si dovrebbe tenere in conto, rischia di far sì che ogni scelta finirà per essere giustificata (appunto in virtù dell’esigenza di conciliare interessi diversi e contrastanti).
Unica soluzione, a questo punto, sarebbe quella di rimettere alla magistratura il compito di sindacare le scelte degli amministratori nell’ottica della protezione degli interessi degli stakeholders, assegnando così alla discrezionalità di un giudice la decisione sulla composizione dei diversi interessi, con la conseguenza di uno strapotere giudiziario nella soluzione dei conflitti tra società e stakeholder.
In secondo luogo, per la formulazione di un giudizio sul raggiungimento degli obiettivi in materia ambientale e sociale – il cui perseguimento di regola, come visto, impone il sostenimento di costi che incidono in senso negativo sulla redditività aziendale – non si rinvengono criteri standardizzati di performance, e gli stessi obiettivi di cui si parla sono difficilmente definibili in via generale, presentando anche profili di contraddizione fra loro. Emblematica la vicenda dello stabilimento ILVA di Taranto dove l’obiettivo di salvaguardare i livelli occupazionali in precedenza garantiti da quella fabbrica è entrato in tragico contrasto con la tutela dell’ambiente; la continuazione della gestione di quel sito produttivo rischia di porre a repentaglio l’ambiente e la salute di chi vive in quella zona, ma al contempo è difficile decretarne la chiusura per gli effetti disastrosi che deriverebbero sulla occupazione in quella comunità.
Infine, politiche in materia sociale ed ambientale possono essere effettivamente implementate dagli amministratori soltanto qualora tale scelta sia condivisa e promossa dai soci, i quali conservano il potere, non solo di eleggere, ma anche quello di rimuove i componenti dell’organo amministrativo. Con la conseguenza che, da un lato, ogni forma di pressione – anche di carattere normativo – nei confronti degli amministratori avrebbe scarsa rilevanza pratica nella misura in cui non coinvolgesse in qualche modo anche i titolari della partecipazione societaria e dall’altro “in una realtà in cui una parte significativa degli investitori è rappresentata da investitori istituzionali o direttamente da istituzioni che hanno bisogno di ritrarre dall’investimento i mezzi per perseguire le loro finalità tipicamente di interesse generale, collettivo, sociale, ambientale e via dicendo (si pensi solo per fare alcuni esempi ai fondi pensione, ai fondi sovrani, alle fondazioni, alle associazioni, agli enti pubblici esponenziali ad iniziare dagli Stati azionisti, ecc.), spostare al livello degli amministratori della società in cui si investe il compito di perseguire interessi generali, collettivi, sociali e ambientali significa svuotare di contenuto e di mezzi e mettere in discussione la stessa capacità di perseguire i fini del medesimo ordine da parte dei soci investitori istituzionali.
Con queste riflessioni non intendiamo tuttavia negare rilevanza al dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa, né proporre un modello imprenditoriale che veda nel mero profitto, nella mera creazione di valore per i soli shareholders l’esclusivo criterio guida delle scelte del vertice aziendale. Siamo consapevoli della crescente domanda di engagement da parte della collettività e riteniamo condivisibile e legittima la pretesa che le imprese orientino il loro comportamento anche verso la protezione di interessi facenti capo a soggetti esterni all’azienda; tuttavia, riteniamo che alla luce del sistema normativo italiano tali istanze vadano ricondotte e tutelate non mediante l’adozione di codici di autoregolamentazione o affidando al mercato il compito di premiare aziende che si presentano socialmente responsabili, bensì individuando un preciso referente normativo della CSR doctrine, che a nostro parere nel sistema normativo italiano è rappresentato dal d.lgs. n. 231 del 2001.
Questa impostazione, infatti, consente, da un lato, di ritenere che solo le società in cui sia presente un modello organizzativo atto alla prevenzione degli illeciti presupposto della responsabilità da reato degli enti collettivi potranno ritenersi conformi ai principi della responsabilità sociale d’azienda e, dall’altro, sarà sufficiente il solo rispetto delle prescrizioni contenute nel citato d.lgs. n. 231 perché un’impresa possa dirsi compliance rispetto ai presupposti della CSR doctrine ed ai criteri ESG.
Le ragioni di tale conclusione sono molteplici. In primo luogo, è assolutamente implausibile riconoscere una qualche forma di attenzione agli interessi degli stakeholders ad un’impresa che non si premuri, per il tramite dell’adozione di un adeguato sistema di governance, di non venire coinvolta, a vario titolo, in vicende criminali; si può dunque fondatamente sostenere che l’impegno che un ente commerciale dedica a tale profilo rappresenta un presupposto ineludibile perché si possa qualificare lo stesso come consapevole della necessità di gestire le esternalità negative derivanti dallo svolgimento della sua attività. Vi è in effetti una chiara sovrapposizione fra la ratio di fondo del sistema normativo delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001 e la teoria della responsabilità sociale dell’azienda: se quest’ultima, come detto, richiede che le aziende tengano in adeguata considerazione una serie di istanze interne ed esterne all’impresa, anche di natura socio-economica, individuando forme di svolgimento della propria attività atte (seppure non a tutelare o promuovere direttamente tali interessi, ma comunque) ad evitare forme di aggressione degli stessi, il d.lgs. n. 231 del 2001 richiede all’impresa di agire al proprio interno in modo tale da prevenire illeciti o da ostacolare condotte criminali da parte dei vertici e dipendenti nell’interesse o a vantaggio dell’ente, il che significa che il legislatore italiano pretende che l’azienda agisca tenendo presente il divieto di aggredire determinati interessi, facenti capo alla collettività o comunque a soggetti estranei alla persona giuridica, e che risultano tutelati dalle norme incriminatrici richiamati dagli art. 23 ss. d.lgs. n. 231 del 2001.
In secondo luogo, ritenere che il rispetto del suddetto decreto rappresenti la modalità di implementazione in azienda della CSR doctrine è conclusione che consente di superare una delle criticità che si sono richiamate al termine del precedente paragrafo ovvero la possibilità che l’attuazione delle scelte dei dirigenti di prestare attenzione alle tematiche tipiche della responsabilità sociale d’azienda venga ad essere preclusa da un atteggiamento di chiusura dei soci, che gli amministratori non possono non prendere in considerazione, e tanto meno superare, per evidenti ragioni. Questa circostanza – ovvero la possibile e frequente divaricazione fra la posizione ed il volere dei soci e gli intenti dei vertici aziendali – dipende dalla circostanza che le usuali modalità di implementazione della CSR doctrine nell’imprese prevedono forme di enforcement solo nei confronti dei secondi, consistenti essenzialmente nella definizione delle politiche per la loro remunerazione, mentre per i soci è indifferente che tali obiettivi di sostenibilità siano effettivamente perseguiti e raggiunti sicché i titolari della partecipazioni societarie ben possono censurare scelte del board che si dirigano nel senso di una tutela di interessi esterni all’azienda quando si ritenga che tali determinazioni comportino costi eccessivi per l’impresa o ne riducano la redditività.
Questa criticità non sussiste laddove si valorizzi il sistema normativo presente nel d.lgs. n. 231 del 2001. La violazione delle prescrizioni ivi previste, infatti, è presidiata da un adeguato sistema sanzionatorio, il quale, pur essendo specificatamente diretto verso la società, coinvolge inevitabilmente anche la posizione dei soci e segnatamente il loro interesse patrimoniali connesso alla partecipazione societaria, sotto un duplice profilo.
In primo luogo, le sanzioni previste dal d.lgs. n. 231 incidono sul patrimonio dell’impresa o depauperandolo in via immediata in caso di pena pecuniaria o impedendo che lo stesso abbia adeguata redditività, in caso di misure interdittive che impediscano l’ordinario svolgimento dell’attività aziendale; in secondo luogo, il solo coinvolgimento dell’impresa in procedimenti penali è circostanza atta ad attivare forme di reazione – difficoltà di accesso al credito, richiesta di rientro da parte degli istituti di credito, conseguenze reputazionali negative, l’adozione di misure cautelari interdittive, l’emissione di provvedimenti di sequestri che vanno a vincolare la liquidità aziendale, ecc. – che comportano una immedita perdita di valore della quota sociale.
Alle nostre considerazioni potrebbe opporsi che il rapporto fra CSR doctrine e la disciplina in tema di responsabilità da reato è tale che si tratta di due profili solo parzialmente sovrapponibili, in quanto la sfera e la tipologia di interessi che la teoria della responsabilità sociale dell’impresa intende tutelare è più ampia degli obiettivi che si pone il d.lgs. n. 231 del 2001, adottando il quale il legislatore italiano ha voluto solo prevedere presidi organizzativi atti a prevenire (ovvero rendere meno agevole e quindi meno probabile) la commissione di illeciti – indicati peraltro in modo tassativo – a vantaggio o nell’interesse della persona giuridica. Tale obiezione coglierebbe nel segno se non fosse che proprio la correttezza di questa osservazione ci pare conforti la nostra conclusione ovvero che di impresa socialmente responsabile, in Italia, ha senso parlare limitatamente all’ipotesi di adempimento delle prescrizioni presenti nel d.lgs. n. 231 del 2001, mentre ogni ulteriore pretesa avanzata nei confronti dell’impresa in nome del perseguimento uno sviluppo sostenibile non sfugge alle critiche di genericità e vaghezza di tale obiettivo, di indeterminatezza dei criteri con cui giudicare del raggiungimento dello stesso e dei parametri con cui giudicare se le scelte degli amministratori sono stato o meno conformi a tale mission aziendale.
In primo luogo, a nostro parere, ancorare il giudizio circa la conformità dell’attività aziendale alla CSR doctrine alla circostanza che l’impresa abbi o meno adottato un modello organizzativo idoneo ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 consente di superare le difficoltà che si riscontrano nell’ipotesi in cui il perseguimento di un successo sostenibile ed il rispetto dei criteri ESG richieda l’ottenimento di risultati, per così dire, intermedi fra loro incompatibili – come si verifica, ad esempio, nel caso, che purtroppo ricorre di frequente, in cui la prosecuzione dell’attività industriale, necessaria per garantire il diritto al lavoro ed adeguati livelli occupazionali in un determinato territorio, rischi di incidere negativamente sull’ambiente della medesima zona. Questa criticità, infatti, non si riscontra laddove (il giudizio circa) la responsabilità sociale dell’impresa si esaurisca (in una valutazione in ordine al) nel rispetto dei dettami presenti nel d.lgs. n. 231 del 2001: tale testo normativo, infatti, da un lato indica alle imprese quali comportamenti adottare e quali risultati raggiungere, prevedendo le sanzioni – che possono arrivare anche all’arresto della produzione nei casi di violazioni particolarmente gravi – da applicare in caso di inosservanza di queste prescrizioni e dall’altro prevede forme di gestione dei conflitti fra contrapposti interessi così da evitare quei conflitti apparentemente irresolubili della cui definizione non paiono interessarsi i fautori della CRS doctrine – si pensi alla nomina del commissario giudiziale quando l’ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività o nel caso in cui l’interruzione dell’attività dell’ente può provocare, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni economiche del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussioni sull’occupazione oppure alla possibilità di modulare le sanzioni interdittiva a seconda del comportamento tenuto dalla società dopo la commissione del delitto.
Ancora più rilevante, però, ci pare la considerazione che la scelta di perseguire con il d.lgs. n. 231 del 2001 un limitato novero di obiettivi – di fatto sintetizzabili nel sollecitare le aziende ad adottare un sistema organizzativo che ne attesti l’attenzione verso il rispetto della legalità, agendo per ridurre il rischio di commissione al suo interno di un determinato novero di delitti – finisca per garantire che il giudizio – formulato dal giudice, dagli eventuali investitori futuri, dai soci, dagli stakeholder ecc. – verso il grado di responsabilità sociale della singola impresa sia ancorato a dati di fatto ed elementi oggettivi e non presenti così margini di opinabilità inaccettabili e tali da rendere plausibile ogni valutazione e quindi giustificare qualsiasi opzione assunta dai vertici aziendali.
In sostanza, sostenere che l’impresa socialmente responsabile è quella che rispetta le prescrizioni del d.lgs. n. 231 del 2001 – condizione questa necessaria e sufficiente per attestare il conformarsi della società commerciale alla CSR doctrine – consente di formulare il relativo giudizio sulla base di un criterio sufficientemente univoco e determinato.
A tale conclusione non può replicarsi sottolineando come il profilo dell’accertamento dell’idoneità del modello organizzativo presenti profili di estrema complessità per l’assenza di criteri e parametri definiti ed oggettivi e stante la mancanza di una normativa generale di riferimento circa la struttura e la funzione della compliance ex d.lgs. n. 231 del 2001, circostanze queste che renderebbero estremamente difficile per le aziende dotarsi di un modello organizzativo in grado di superare lo scoglio del vaglio giudiziario così come sarebbe parimenti complesso per i giudici individuare i parametri in base ai quali stimarne l’idoneità.
In effetti, il d.lgs. n. 231/2001 presenta significative carenze in ordine ai contenuti del modello richiesto ed ai parametri di valutazione alla luce dei quali giudicare della sua adeguatezza ma la giurisprudenza sta cercando di colmare tale deficit di determinatezza della disciplina precisando quali sono le finalità del MOG, qual è il criterio di giudizio di assumere circa la sua conformità al dettato normativo, come occorre operare tale valutazione, quale rilievo riconoscere alla circostanza che il modello adottato non abbia avuto un’efficacia impeditiva in ordine al verificarsi del delitto, ecc..
Tuttavia, a prescindere dal cammino (ancora lungo, in verità) che la giurisprudenza ha intrapreso per giungere ad una soddisfacente articolazione dei criteri sulla base dei quali valutare l’idoneità della governance aziendale rispetto alle istanze presenti nel d.lgs. n. 231 del 2001 ci pare innegabile che riconnettere la dimensione della responsabilità sociale dell’impresa al rispetto del dettato normativo presente nel citato d.lgs. n. 231 consenta di formulare giudizi in ordine al primo profilo – ovvero se l’impresa conformi o meno la propria attività alla CSR doctrine – in termini meno sfumati rispetto a quanto ci si chieda se l’azienda ha agito nel rispetto dei diritti dei lavoratori, l’ambiente, se svolge attività sostenibile ecc., individuando nel coinvolgimento o meno dell’ente commerciale in una vicenda criminosa l’elemento essenziale di un giudizio, dopo essere formulato in sede penale con riferimento alla responsabilità da reato della società ex d.lgs. b. 231 del 2001, può essere riferito alla tenuta etica dell’impresa.
Le imprese, se vogliono tutelare gli stakeholders e ogni centro di interesse esterno al loro ambito, devono dunque organizzarsi ed adottare una governance funzionale ad incidere sulle probabilità di commissione di illeciti a loro vantaggio o nel loro interesse. Forse non è tutto quello che si cerca quando si parla di “responsabilità sociale dell’impresa”, ma sarebbe però già molto.
Ciro Santoriello