INDUSTRIA

Lo Stato: crisi d’impresa? E’ meglio salvaguardarla

By 21/12/2021No Comments

L’attività aziendale è un valore che la disciplina concorsuale deve conservare – La nuova coscienza sociale – Come uscire da spirali devastanti – La differenza con l’insolvenza

In italia, la considerazione che il legislatore ha riservato alle imprese in stato di crisi è stata di riprovazione e censura, quasi venisse considerata sempre e solo responsabilità degli amministratori il cattivo esito delle attività economiche da loro intraprese. Espressione di un tale approccio è la normativa fallimentare, risalente al 1942: l’azienda fallita veniva estromessa immediatamente dal mercato, l’autorità giudiziaria subentrava in via integrale all’imprenditore e procedeva, unitamente ad alcuni collaboratori, alla liquidazione dell’attivo fra i creditori rimasti insoddisfatti.
Questa impostazione è andata tuttavia significativamente modificandosi nel corso degli ultimi vent’anni, allorquando, rispetto alla originaria impostazione della disciplina delle procedure concorsuali improntata ad una logica prettamente liquidatoria della società in dissesto, il legislatore ha espresso con sempre maggiore convinzione un orientamento di favore verso soluzioni delle crisi d’impresa intese a garantire la continuità dell’operatività di quest’ultima nella convinzione che l’attività aziendale è un valore che la disciplina concorsuale deve conservare e rilanciare, per cui una spiccata deflessione privatistica nella gestione della crisi d’impresa si è gradualmente affiancata alla direzione pubblicistica dell’insolvenza.
Queste innovazioni sono evidenti se si considerano le continue modifiche della normativa fallimentare che hanno interessato soprattutto il cd. Concordato preventivo, cui, dapprima con la riforma contenuta nel d.lgs. N. 35 del 2004 n. 35 (cd. Decreto sulla “competitività”) e poi con l’introduzione della figura del concordato con continuità aziendale, disciplinato dall’art. 186-bis della legge fallimentare (entrato in vigore con il d.lgs. N. 83 del 2012), il legislatore ha riconnesso all’istituto in parola finalità non più solo liquidatorie – come previsto per l’istituto del fallimento – ma anche di conservazione e risanamento dell’impresa.
Questo percorso di riforma può poi dirsi compiuto in termini definitivi con l’adozione del nuovo codice della crisi che ha spostato il baricentro della disciplina concorsuale dalla declaratoria di fallimento, oggi denominata “dichiarazione di apertura della procedura di liquidazione giudiziale”, alle fasi anteriori della vita della società commerciale, differenziando fra crisi ed insolvenza dell’impresa. La prima intesa come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”; la seconda quale “stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
Prendendo le mosse dalla nozione di “crisi di impresa” come definita dall’articolo 2, lettera a), poi, il nuovo codice della crisi delinea la disciplina, assolutamente innovativa per l’ordinamento giuridico italiano, delle procedure di allerta e di composizione della crisi, le quali possono essere attivate per le imprese che si trovano in una situazione di crisi non irreversibile, finalizzate alla ricerca di un risanamento e di un riequilibrio economico-finanziario delle imprese stesse. L’introduzione di tali procedure di allerta e di composizione della crisi di impresa – che possono essere attivate sia da parte dello stesso imprenditore debitore, a ciò incentivato anche con il riconoscimento di importanti misure premiali di natura fiscale e penale, sia da parte di alcuni creditori pubblici qualificati individuati dallo stesso codice, sia, infine, da parte degli organi di controllo societari, del revisore contabile e delle società di revisione – costituisce il segno di un mutato clima culturale, incline a valorizzare (piuttosto che la tutela degli interessi facenti capo al singolo imprenditore o ai creditori) l’impresa come valore economico – sociale, ed è per la salvaguardia di quest’ultima e per conservarne la presenza sul mercato che il legislatore (anziché rimettere l’esito della vicenda alla mera iniziativa dell’imprenditore o alla sua inerzia) ha introdotto strumenti normativi che consentano (ed impongano) di intervenire per il superamento delle difficoltà economiche e finanziarie dell’azienda, prima che maturi una irrisolvibile insolvenza, istituendo una rete di segnali di allerta i quali, in presenza di sintomi premonitori e predittivi, richiamino e pongano l’imprenditore dinanzi alle sue responsabilità, affinché assuma le più opportune e tempestive iniziative.
Sempre per evitare che le difficoltà economiche dell’imprese si “avvitino” in una spirale senza fine sono stati delineati a carico dell’imprenditore specifici obblighi in funzione della tempestiva rilevazione della crisi onde consentire l’adozione senza indugio di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della stessa ed il recupero della continuità aziendale. L’imprenditore, dunque, deve dotare l’azienda di misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi per poi poter assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte. Nella nuova impostazione della disciplina delle procedure concorsuali, infatti, l’obiettivo della conservazione e della garanzia della continuità dell’impresa deve essere perseguito e considerato come prevalente dall’imprenditore in qualsiasi momento dell’esercizio dell’attività aziendale: da qui il cennato obbligo di tempestiva rilevazione dello stato di crisi, con conseguente assunzione di idonee iniziative per il superamento della stessa.
Siamo in presenza di un nuovo modo del legislatore di valutare e considerare i compiti dell’imprenditore. Il giudizio sulle sue capacità non riguarda solo il risultato finale – esito che dipende da molte variabili, diverse delle quali sfuggono al dominio del singolo – ma anche come egli ha saputo organizzare l’impresa: la dimensione organizzativa dell’impresa, della quale in precedenza i giuristi tendevano a disinteressarsi, lasciandone la cura ai cultori delle scienze aziendalistiche, ha un valore giuridico e trova anche nella legislazione (e non solo nelle prassi e negli studi in tema di organizzazione) la sua regolamentazione ed i criteri ai quali ispirarsi.
Con il codice della crisi, l’attenzione agli assetti organizzativi dell’impresa si coniuga così con la nuova disciplina delle procedure concorsuali. Si è preso atto che il regime come delineato dalla legge fallimentare di cui al r.d. n. 267 del 1942 non ha funzionato, ed ha creato il diffuso e gravissimo ritardo con cui le imprese, in questi anni, hanno avuto accesso alle procedure concorsuali: oggi, a causa proprio del ritardo in cui vengono dichiarati rispetto al momento di insorgenza dell’insolvenza, i fallimenti sono procedure spesso inutili e costose e vengono di frequente chiuse per mancanza di attivo da ripartire, mentre i concordati prevedono percentuali di soddisfacimento dei creditori minime, se non irrisorie e spesso si basano, nei concordati cosiddetti “in continuità”, su irrealistiche previsioni di futuri flussi reddituali che, in assenza di assets prontamente liquidabili, dovrebbero consentire il pagamento dei debiti pregressi. Da ciò, il maturare della consapevolezza che, per evitare tali gravi diseconomie, la tempestività dell’intervento è essenziale per poter attuare utilmente strategie di risoluzione della crisi atte ad evitare lo spreco di risorse ed i danni, anche di carattere occupazionale, che si verificano quando, sopravvenuta una situazione irreversibile di insolvenza, si debba ripiegare su procedure meramente liquidatorie. L’assetto organizzativo è funzionale quindi proprio a consentire la pronta percezione di quegli indicatori che, come previsto dagli artt. 12 ss. Del codice della crisi, comportano l’obbligo di segnalazione all’organismo di composizione della crisi d’impresa, dando così vita alla procedura di allerta ed eventualmente di composizione assistita della crisi.
Le finalità della riforma delle procedure concorsuali sono condivise, ma certo il contenuto dell’innovazione legislativa non ha incontrato il favore dell’imprese, che hanno evidenziato i costi derivanti dall’adozione degli ora obbligatori “adeguati assetti”, la complessità dei diversi indici di liquidità, insolvenza, patrimonializzazione, ecc. Di cui le società dovrebbero tener conto per adempiere alle nuove previsioni normative. Soprattutto, viene paventata la possibilità che l’accentuata attenzione ai dati organizzativi dell’azienda, alle modalità con cui l’imprenditore struttura la propria impresa, possa consentire un controllo giudiziario sulla vita delle società eccessivamente penetrante, consentendo all’autorità giudiziaria di valutare le scelte degli amministratori anche quando le stesse non abbiano condotto le loro aziende con esiti fallimentare. L’esito di queste perplessità, quando non si tratta di vere e proprie feroci critiche, è che il codice della crisi approvato con il d.lg. N. 14 del 2019 non è entrato ancora in vigore e (forse) lo sarà solo nell’estate del 2022.
Indubbiamente, quali siano gli esiti di questa riforma non dipendono certo solo dal contenuto della riforma stessa. Occorre un cambio di passo da parte delle aziende e poi una maggiore capacità di confronto e colloquio, sia pure nel rispetto dei reciproci ruoli, fra le imprese e la magistratura (anche, se non soprattutto, quella penale), entrambe tese a costruire un sistema economico in cui possano coniugarsi efficacemente perseguimento del profitto e dell’utile economico e rispetto ed affermazione della legalità. La tragedia dei tempi attuali testimonia la necessità di questo cambio di passo.
Il raggiungimento di questo risultato non è però certo semplice. I vertici delle aziende devono recuperare una forma di “serietà” nello svolgimento dell’attività economica: non sono più i tempi in cui l’imprenditore poteva immaginarsi quale protagonista esclusivo della sua iniziativa, quale responsabile unico del suo successo professionale, “fuoriclasse” le cui capacità non vanno ingabbiate o vincolate al rispetto di procedure e precauzioni operative. Non si può fare impresa senza una efficace programmazione e pianificazione della propria attività e bisogna saper accettare che a volte quegli stessi strumenti organizzativi che si sono adottati per produrre valore siano i medesimi che impongono l’arresto di un’attività ormai diseconomica e senza futuro.
In quest’ottica la crisi aziendale non va più considerata quale fonte di rimprovero, un fatto disonorevole per l’imprenditore, ma quale possibile esito della vita dell’impresa, che deve – al pari delle altre attività aziendali – essere gestita in maniera razionale ed efficace; il nuovo codice della crisi, perciò, nel dettare la definizione di “crisi” ed “insolvenza”, nell’individuare gli elementi sulla base dei quali pronosticare l’insorgenza di tali difficoltà economiche e patrimoniali, nell’indicare all’imprenditore gli strumenti per superare o non aggravare il suo dissesto, anziché essere un ulteriore ostacolo per la vita economica del paese, rappresenta un ausilio per quanti vivono nella e per l’impresa, suggerendo loro una via di uscita non disastrosa per il patrimonio aziendale (e spesso anche personale: quanti imprenditori investono nella società ogni avere loro e dei loro familiari nel tentativo di allontanare un esito purtroppo già scritto…).
La magistratura, di contro, deve essere consapevole che a poco servirebbe che il mondo imprenditoriale si mostrasse pronto ad accogliere la riforma delle procedure concorsuali – in cui al tentativo di recuperare imprese in crisi, in luogo di sancirne l’espulsione (per di più con infamia: sei fallito!) Dal mercato, si affianca l’impegno del singolo amministratore ad anticipare il più possibile l’emersione delle difficoltà economiche della propria azienda, senza mascherarne le criticità e la necessità di una collaborazione con gli stakeholders -, laddove ella non fosse capace di ripensare il proprio ruolo nell’ambito delle procedure esecutive concorsuali, senza reagire ai fallimenti sempre con inusitata severità, o ricollegare la qualificazione di condotte di bancarotta all’esito finale dell’attività imprenditoriale, utilizzando la logica del senno di poi per colpevolizzare scelte gestionali, sì pregiudizievoli quanto all’esito finale, ma non irragionevoli se riguardate sulla base di quanto l’imprenditore poteva sapere e considerare al momento dei fatti.
E’ ai giudici in particolare che competerà di separare il grano dal loglio, con la consapevolezza che questa attività è ancora più difficile nell’ambito del diritto dell’economia quando, al momento della valutazione, si devono confrontare con due elementi che possono fortemente influenzare il loro giudizio: il disastroso esito finale dell’attività economica e il danno patrimoniale enorme che spesso ne consegue e che coinvolge ampie collettività di risparmiatori. Nonostante assai di frequente al fallimento dell’impresa economica segua il verificarsi di questi eventi, la giustizia deve tuttavia sapere riconoscere all’imprenditore che ha ammesso il “fallimento” della propria attività e si è adoperato per un efficace gestione dello stesso il coraggio delle sue scelte e non giudicarlo solo sulla base del risultato che ha ottenuto. Occorrerà sempre più, se si vuole che gli imprenditori imparino a gestire la crisi aziendale, saper distinguere il “fallimento criminale” dall’apertura di una liquidazione giudiziale che segnali semplicemente l’esito sfortunato di una vicenda di vita.

Ciro Santoriello

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