INDUSTRIAPOLITICA

MORTI BIANCHE, “PENA-CONTROLLI-PENA” CIRCOLO VIZIOSO CHE E’ MEGLIO ABOLIRE

By 21/09/2023Settembre 25th, 2023No Comments

Molteplici le colpe, quasi sempre dovute a errori umani – Necessarie regole ferree e controlli tecnici che tolgano ai responsabili la possibilità di compiere tragici errori – Una casistica infinita e delicata tesa a individuare la reale volontà di compiere un reato – Gli esempi più clamorosi, Brandizzo, il Mottarone, il crollo del ponte Morandi

Il recente drammatico incidente verificatosi sulla linea ferroviaria nei pressi di Brandizzo riporta all’attenzione delle cronache il tema della (in)sicurezza del lavoro.
In effetti, la strage di lavoratori verificatasi in provincia di Torino evidenzia maggiormente l’urgenza di intervenire a fronte di dati che attestano che le cosiddette morti bianche – ovvero i decessi dovuti ed intercorsi nel corso dell’attività lavorativa – sono stati tra il gennaio e l’agosto di quest’anno circa 600, e quindi quasi tre al giorno, considerati anche i giorni festivi!
Occorre dunque una nuova ed ulteriore riflessione sui temi della sicurezza sul lavoro e della compatibilità fra la logica del profitto propria del capitalismo e la salvaguardia di interessi che stanno al di là delle aziende.
Sul primo punto, l’opinione prevalente è che tale obiettivo debba essere perseguito mediante l’adozione di un sistema repressivo e di controllo più severo e incisivo di quello attuale. Per evitare futuri drammi, perciò, occorrerebbe nell’immediato punire severamente i colpevoli della strage e per il futuro intensificare i controlli sulle aziende onde individuare l’adozione di condotte pericolose, sottoponendo nuovamente a pene severe chi vìola la normativa: un circolo senza fine di pena-controlli-pena.
Tale conclusione poi sarebbe imposta dalla riscontrata inconciliabilità (di cui non solo la vicenda di Brandizzo, ma anche, ad esempio, il crollo del ponte Morandi o l’incidente della funivia del Mottarone sarebbero la dimostrazione) fra la tensione dell’imprenditore verso la massimizzazione dei ricavi e i costi necessari per la tutela dell’altrui incolumità; da qui l’accentuazione dell’importanza dei controlli per il rispetto della normativa antinfortunistica giacché, se non si può far conto su una capacità di autoregolamentazione del capitalismo, è necessario individuare gli imprenditori che si manifestano come disponibili a porre in pericolo la collettività per arrestarne (o arrestarli) la deriva criminale. Si tratta di una visione in qualche modo tranquillizzante, giacché segna una cesura netta fra chi ha commesso il crimine e tutti gli altri soggetti appartenenti alla collettività (comportamenti come agire sui binari mentre è ancora attiva la circolazione dei treni sono condotte di tale gravità che, diversamente dagli attuali indagati, nessuno di noi avrebbe messo in essere questa scellerata condotta), ma al contempo non molto efficace in un’ottica preventiva.
Che i responsabili dell’accaduto vadano puniti è indiscusso. Lo impongono il rispetto verso le vittime, le esigenze di sicurezza, effettività e certezza della pena, nonché – per quanto possa sembrare paradossale – la dignità degli stessi colpevoli, che mediante l’espiazione della sanzione si vedono riconosciuti come ancora appartenenti alla comunità, in quanto tali meritevoli di sanzione ma altresì di essere, proprio mediante la pena, rieducati e reimmessi nel circuito relazionale.
Al contempo, però, occorre riconoscere che le scelte poste in essere da quanti dirigevano i lavori nei pressi della stazione ferroviaria di Brandizzo non possono essere motivate facendo solo riferimento all’indole criminale degli stessi: occorre una buona dose di ingenuità – se non una sopravvalutazione della nostra tenuta morale – per affermare che situazioni come quelle in cui si sono trovati gli indagati non abbiano una forte spinta di condizionamento cui avremmo saputo senz’altro resistere, e quindi non avremmo sottovalutato i rischi conseguenti alla scelta di disattendere le indicazioni provenienti dal dirigente delle Ferrovie.
Solo riconoscendo – con una presa d’atto forse dolorosa per l’immagine che ciascuno coltiva di sé stesso – che il mancato rispetto degli interessi e diritti altrui è qualcosa di connaturato nella natura umana si potrà andare efficacemente alla ricerca di strumenti idonei a prevenire drammi come quello di Brandizzo. Tale risultato non può essere perseguito semplicemente punendo i responsabili: sanzioni severe sono già previste ma spesso non fungono da deterrente perché l’imprenditore che pone in essere condotte pericolose agisce convinto (o semplicemente sperando) che non si verifichi nulla di grave e quindi non considera il peso della possibile punizione. Inoltre, verifiche e ispezioni sono già previste e una loro intensificazione difficilmente potrà raggiungere la diffusività così capillare che si ritiene necessaria.
Piuttosto, posto che l’adozione di comportamenti irresponsabili, la sottovalutazione del rischio nel perseguimento del profitto, il disinteresse verso la sorte altrui sono atteggiamenti non completamente arginabili, occorre far crescere nelle imprese la cultura del risk management (più l’imprenditore ha consapevolezza della probabilità del verificarsi di un evento disastroso e delle conseguenze economiche negative che ne derivano per l’azienda e più cerca di abbassare la possibilità che ciò si verifichi) e stabilire che la politica della sicurezza deve essere intesa a introdurre nelle imprese sistemi precauzionali che attenuino le conseguenze delle condotte irragionevoli, minimizzando gli effetti dannosi che ne possono derivare.
Nel caso di Brandizzo, ad esempio, sarebbe bastato che il sistema di allarme per la circolazione ferroviaria fosse in grado di percepire la presenza sui binari di soggetti estranei per evitare il disastro.
Quest’ultimo punto ci sembra particolarmente rilevante, essendo necessario insistere con forza sulla necessità di introdurre tali sistemi preventivi, tali strumenti di sicurezza in grado di attivarsi a prescindere dall’intervento e dalla decisione dell’uomo. Va considerato, infatti, che se vi sono ipotesi in cui l’incidente sul lavoro è addebitabile al datore di lavoro che, per aumentare i suoi ricavi, fa lavorare i suoi dipendenti in condizioni di pericolo, non garantendo la sicurezza sui luoghi di lavoro, non mancano i casi (che, anzi, diversamente da quanto si ritiene, sono assai più frequenti rispetto all’ipotesi in precedenza richiamata) in cui l’incidente, il disastro sono dovuti ad una disattenzione, alla superficialità dello stesso lavoratore che si infortuna o di suoi colleghi.
Proprio la vicenda del disastro di Brandizzo conferma questa riflessione: diversamente da altre vicende in cui l’accaduto è attribuibile a carenze circa la sicurezza sul luogo di lavoro, carenza a sua volta conseguente all’incuria del datore di lavoro, nel caso in esame, da quello che emerge dalle prime ricostruzioni, a Brandizzo l’accaduto è dipeso da una scellerata scelta di soggetti che si trovavano sul luogo del sinistro e che quindi avrebbero (anche) loro subito le nefaste e devastanti conseguenze della loro condotta imprudente. Ciò dimostra quindi come sia inutile insistere esclusivamente sulle responsabilità individuali e sulla capacità dei singoli di prestare adeguata attenzione ai loro compiti: la disattenzione, l’errore, sono un elemento ineliminabile della quotidianità cui si deve fare fronte (anche) con l’adozione di meccanismi e strumenti in grado di funzionare a prescindere dall’intervento umano.

Ciro Santoriello