INDUSTRIA

MORTI SUL LAVORO, LE PENE NON BASTANO ORA E’ URGENTE UNA CRESCITA CULTURALE

By 24/10/2022Novembre 23rd, 2022No Comments

Il pensiero del PM Ciro Santoriello: “Gli imprenditori comprendano quanto sia necessario investire sulla sicurezza dei lavoratori” – Il caso tipico della Thyssen – Una maggior coscienza sociale salva aziende e la vita dei dipendenti – L’aforisma di B. Franklin

Il tema della (in)sicurezza del lavoro rappresenta una vera emergenza per i nostri tempi. Non bastassero le denunce ed i richiami del Presidente Mattarella, l’urgenza del problema è adeguatamente rivelato dai dati di fatto ricavabili dal report recentemente pubblicato dall’INAL: 484.561, quasi mezzo milione, a tanto ammonta il numero di denunce per infortuni sul lavoro presentate all’Inail nei primi otto mesi del 2022 con un balzo del +38,7% se paragonato allo stesso periodo del 2021 ed a quanti volessero ridimensionare l’importanza del numero, sostenendo che in tale dato rientra di tutto, compresi gli infortuni cd. in itinere e le lesioni di modesta entità, si può (purtroppo) agevolmente replicare che le cd. morti bianche – ovvero i decessi dovuti ed intercorsi nel corso dell’attività lavorativa – sono stati tra il gennaio e l’agosto di quest’anno 677 (sia pur in calo rispetto al n. di 772 riferito al 2021), e quindi quasi tre al giorno, considerati anche i giorni festivi!
Non si può certo sostenere che il problema sia sottovalutato da nostro legislatore, che tuttavia tratta la tematica della sicurezza sul lavoro in un’ottica essenzialmente repressiva, individuando la causa del tragico fenomeno degli infortuni essenzialmente nella negligenza delle aziende, quando non addirittura in un intenzionale disinteresse degli imprenditori rispetto alla sicurezza e salute dei propri dipendenti, quando il rispetto della normativa antinfortunistica determini costi eccessivi, incompatibili con il perseguimenti di profitti e ricavi. Da tale impostazione deriva un continuo aggravamento delle pene nella convinzione che solo il timore di una sanzione deflagrante può convincere i dirigenti aziendali a prestare maggiore attenzione al tema della prevenzione antinfortunistica.
Può sorprendere, considerando il mio ruolo di magistrato, per di più pubblico ministero, ma io ritengo che trattare il tema della sicurezza sul lavoro esclusivamente in un’ottica repressiva sia insufficiente – e d’altronde i dati sopra indicati stanno ad evidenziare che il rigore sanzionatorio, pur utile, non è certo risolutivo del problema – ed anzi ormai il ricorso allo strumentario penale per garantire una maggiore sicurezza sui luoghi di lavoro abbia fatto il suo tempo.
A mio avviso, infatti, per una vera prevenzione antinfortunistica nell’ambito aziendale è necessario una crescita culturale degli imprenditori che pervengano alla consapevolezza che quelli che di solito si chiamano “costi per la sicurezza” sono in realtà investimenti intesi a migliorare l’assetto produttivo aziendale e quindi a consentire l’ottenimento di maggiori profitti per l’azienda.
Il profilo può essere facilmente colto considerando proprio l’ipotesi più grave di violazione della normativa antinfortunistica ovvero i casi in cui le lesioni del lavoratore sono (non la conseguenza di circostanze assolutamente casuali, di disattenzioni isolate nell’ambito di un’azienda comunque attenta alla salvaguardia della salute di chi vi opera, ma) l’esito di inosservanze della cui presenza il datore è non solo ben consapevole ma che sono addirittura a lui addebitabili in termini di politica aziendale: si pensi, ad esempio, all’utilizzo di macchinari obsoleti o non conformi alla normativa, alla mancata predisposizione dei dispositivi individuali di sicurezza, alla mancata verifica circa il rispetto da parte dei dipendenti delle prescrizioni in tema di sicurezza, alla mancata formazione dei lavoratori, ecc.. Per riferirsi ad una tragica vicenda realmente verificatasi, pensate al processo Thyssen in cui la sentenza di condanna definitiva ha accertato la presenza, nello stabilimento ove si è verificata la morte di 7 operai, di molteplici violazioni riconducibili ad una scelta dei massimi dirigenti, i quali avevano scientemente deciso di non procedere all’ammodernamento dell’impianto in considerazione della sua prossima chiusura.
Chiaramente, nell’ipotesi che stiamo considerando l’imprenditore non ha nessuna volontà di cagionare l’infortunio del dipendente. Semplicemente, egli ritiene che, rispetto alle richieste del legislatore in tema di misure per la prevenzione degli infortuni, la cui adozione graverebbe in maniera significativa sulle disponibilità economiche dell’azienda, il medesimo risultato in termini di sicurezza può ottenersi facendo ricorso a soluzioni meno gravose in termini di costo e ritiene perciò che il mancato rispetto delle prescrizioni normative non comporterà alcun evento dannoso per i suoi dipendenti.
A prima vista, nel caso da noi richiamato il ragionamento dell’imprenditore si presenta assolutamente razionale ed economicamente logico. Il rischio, costituito dall’infortunio del lavoratore, e quindi l’effettivo verificarsi del reato presupposto per la responsabilità penale della sua impresa, può essere, a suo parere, adeguatamente arginato mediante il ricorso a misure più economiche e meno costose rispetto a quelle richieste dal legislatore: dunque, perché non attestarsi su questa linea minimale di sicurezza ottenendo così il duplice risultato di risparmiare sui relativi costi e pervenire ad un accettabile prevenzione del rischio infortuni?
Certo, l’imprenditore è ben consapevole che lo standard organizzativo raggiunto per la prevenzione degli infortuni dei suoi dipendenti non è ottimale ed è difforme rispetto a quanto prescritto dalla normativa, per cui, se l’evento tragico si verificherà, sarà ben difficile, per lui e la sua società, non subire le dure conseguenze di una condanna; però, l’eventualità che l’infortunio o il decesso del suo dipendente effettivamente si realizzi è da lui ritenuta comunque bassa (in fin dei conti, nella sua impresa un qualche livello di sicurezza è comunque garantito) ed allora vale la pena di correre il rischio di dover sopportare in futuro un evento negativo – la condanna in sede penale per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p. – solo possibile a fronte di un beneficio – il risparmio sui costi per la prevenzione infortuni – attuale e certo.
Da questa conclusione all’affermazione secondo cui è più efficiente un’azienda che ragioni in questi termini, valorizzando cioè in massimo grado il profilo del risparmio dei costi per la sicurezza rispetto al risultato della prevenzione degli infortuni, piuttosto di un’impresa che cerchi di ottemperare a tutte le prescrizioni del legislatore così da abbattere in massimo grado la possibilità di eventi dannosi per i suoi dipendenti, il passo è breve.
Passo breve, ma frettoloso. Ciò che sfugge in questo ragionamento è la circostanza che l’imprenditore non è in grado di determinare quali saranno le effettive conseguenze del suo atteggiamento imprudente nella gestione del rischio reato ed in particolare – può sembrare quasi “inumano” dirlo, ma è un profilo da considerare attentamente quando si intenda fare un’analisi economica della questione – quale sia l’effettivo costo dell’incidente che può verificarsi a cagione della mancata adozione delle precauzioni obbligatorie.
In primo luogo, il datore di lavoro non può ovviamente stabilire in anticipo quale sarà la portata delle conseguenze derivanti dalla sua scelta di risparmiare sui costi della sicurezza. Se si potesse riconnettere a violazioni minimali il verificarsi di conseguenze dannose di minima entità, se fosse costante l’equivalenza “inosservanza di prescrizioni normative di rilievo non essenziale=infortuni non significativi per i lavoratori”, allora sarebbe possibile pianificare a quali spese rinunciare nella certezza che non seguirebbero disastri significativi per l’azienda Però, come è noto, così non è.
Come diceva Benjamin Franklin :“A causa di un chiodo, si perse un ferro. A causa del ferro, si perse un cavallo. A causa del cavallo, si perse un cavaliere. A causa del cavaliere, si perse una battaglia. Persa la battaglia, è persa la
guerra. Persa la guerra, è perso il mondo. E tutto per colpa di un chiodo”. La stessa cosa, con minore ironia ed in modo più tragico insegna l’esperienza sui luoghi di lavoro laddove il danno economico conseguente ad una violazione antinfortunistica è assai spesso non correlato al rilievo che la prescrizione inosservata ha nell’ambito del sistema della sicurezza. Anche qui, la vicenda Thyssen è emblematica: a fronte dell’(apparentemente) giustificata, sotto un profilo economico, scelta di non intervenire su uno stabilimento prossimo alla chiusura, nell’opinione che con un minimo di attenzione la pericolosità del luogo di lavoro non avrebbe comportato chissà quali conseguenze, si è verificata una strage che, oltre agli inenarrabili costi umani, ha determinato per l’azienda perdite patrimoniali – in termini di risarcimento danni, perdita di immagine, sanzioni economiche, ecc. – nemmeno avvicinabili ai costi che avrebbe comportato una messa in regola dell’azienda.
Il problema dei costi che l’azienda deve sopportare in caso di infortunio sul lavoro di un dipendente, tuttavia, non si esaurisce solo nelle non preventivabili dimensioni di quanto può verificarsi in conseguenza delle violazioni antinfortunistiche, intenzionalmente poste in essere dal datore di lavoro per ottenere un risparmio dei relativi costi.
Fra le conseguenze di tali vicende non governabili dall’imprenditore ed il cui riflesso per le sorte dell’azienda questi non può prospettarsi rientra, infatti, anche l’impossibilità di scegliere “chi” sarà il povero dipendente che dovrà, nel caso, sopportare le conseguenze della voluta imprudenza del suo dirigente.
Detto così, può sembrare un discorso da “padrone delle ferriere” – chi sacrifichiamo oggi all’altare del risparmio dei costi? -, ma ricorrendo ad un esempio è facile accorgersi che si tratta di una prospettiva che ogni imprenditore dovrebbe tenere presente.
Immaginiamo che in un’azienda ci siano dieci dipendenti, cinque esperti e professionalmente preparati ed altri cinque di recente assunzione, ancora da formare e a digiuno delle tecniche di lavorazione più complesse. Se l’imprenditore dovesse rinunciare ad uno dei dieci, secondo voi preferirebbe che l’assente appartenga al primo o al secondo gruppo? Ovviamente, le preferenze del datore di lavoro vanno nel senso che sarebbe decisamente meglio che si allontanasse dalla sua azienda un giovane ancora inesperto, la cui utilità marginale per l’azienda – la cui capacità produttiva, detto altrimenti – è decisamente inferiore rispetto a coloro che lavorano da più tempo e che conoscono a menadito i processi produttivi, che sanno come funzionano le macchine, che sanno quali difetti possono presentarsi nella produzione ecc..
Ecco, quando il datore di lavoro si pone consapevolmente in una situazione di pericolo perché, per risparmiare sui relativi costi, non instaura nella sua impresa un adeguato standard di sicurezza per i suoi lavoratori è come se rinunciasse a scegliere chi, fra i suoi dieci dipendenti di cui abbiamo parlato sopra, deve assentarsi dal lavoro. La negligenza dell’amministratore potrà comportare che si faccia male un soggetto assunto pochi giorni prima, ancora tutto da istruire, ancora da formare, un soggetto la cui presenza, al momento, rappresenta più un onere per l’azienda che un efficace fattore della produzione ed allora (a prescindere da ogni considerazione di carattere penale ed etico, che, ripeto, in questa sede non ho interesse ad esaminare) si può concludere che all’azienda tutto sommato è andata bene…
Ma se si fa male il dipendente esperto, quello che lavora nell’azienda fin dal momento dell’inizio della sua attività, quello di cui il “padrone” si fida come di se stesso? E’ valsa davvero la pena di risparmiare qualcosa sui costi per la sicurezza visto che poi si è perso uno dei collaboratori più importanti?
Nella mia esperienza ho fatto molti processi per infortuni sul lavoro, così come per curiosità e studio sono stato in molte e mi ha colpito sempre una costante. Le aziende maggiormente efficienti, più attente alla modernizzazione, le imprese che più investivano in nuovi macchinari, che ottimizzavano continuamente le loro linee di produzione erano al contempo quelle più attente alla sicurezza dei dipendenti, quelle in cui più severe erano le reprimende e le sanzioni nei confronti di chi assumeva atteggiamenti pericolosi per la propria o altrui sicurezza.
La cosa in un primo tempo mi sorprendeva. In un’ottica (tipica del giurista penale) di contrapposizione fra imprenditore attento al profitto ed impresa che agisce in maniera conforme alle prescrizioni di legge, mi domandavo quali motivazioni spingessero un amministratore, che già aveva sostenuto spese per investimenti – rimandando quindi il conseguimento di utili al momento in cui i nuovi macchinari acquistati mostrassero effettivamente la loro valenza produttiva – ad affiancare a tali costi ulteriori sforzi economici per la sicurezza dei suoi lavoratori, facendosi così carico di nuovi spese sempre non connesse ad un immediato ottenimento di profitto.
Poi però riflettendo ho compreso che l’imprenditore che investe nell’ammodernamento del proprio impianto produttivo, provvedendo anche alla formazione dei dipendenti per insegnare loro a far funzionare in maniera ottimale la nuova strumentazione, farà necessariamente di tutto per garantire che i suoi lavoratori, che sono capaci di far funzionare queste macchine così efficaci ma anche così costose, non si facciano male mentre lavorano: se si infortuna (non il giovane appena assunto) ma il dipendente deputato al funzionamento della nuova macchina e deve assentarsi dal lavoro per un tempo considerevole, l’acquisto del macchinario si rivela inutile. La prevenzione degli infortuni, dunque, non passa per un inasprimento della risposta penale, ma per una crescita della cultura imprenditoriale del nostro paese.
Molto spesso il verificarsi di un infortunio sul lavoro non rappresenta solo un elemento di costo per l’imprese e, in quanto tale, un fattore critico e negativo per il processo produttivo. Tale circostanza, infatti, è anche la conseguenza ed il sintomo di un’inefficienza più profonda dell’azienda, la quale è incapace di investire nell’ammodernamento dell’impresa e nella conseguentemente necessaria formazione del personale e, proprio perché cerca di sopravvivere solo mediante il risparmio dei costi, in primis quelli per la sicurezza, è incapace di proteggere il proprio “capitale umano”. E’ su questi aspetti che occorre insistere per pervenire ad una soddisfacente “sicurezza sul lavoro”.

Ciro Santoriello