
Un tema centrale riproposto dalle vicende giudiziarie di Trump – Essenziale distinguere le sentenze emesse dalle corti internazionali per crimini contro l’umanità – Perplessità e critiche per i giudizi “sovrannazionali” – I casi più clamorosi della storia – Le accuse a Putin e l’impossibilità di condannarlo
Le recenti gravi vicende giudiziarie che vedono coinvolto il precedente presidente U.S.A. Donald Trump portano alla ribalta un tema ormai centrale delle moderne democrazie ovvero si possono processare i politici o meglio coloro che hanno rivestito o rivestono cariche pubbliche di particolare rilievo che li hanno posti al vertice degli Stati? La domanda è complessa, anche perché può essere affrontata da una pluralità di punti di vista, con conseguente adozione di risposte diverse a seconda dell’ottica da cui si guarda alla questione.
In primo luogo, va differenziata l’ipotesi in cui la giustizia di cui si parla sia quella sovranazionale – per intenderci quella che trova espressione nelle decisioni dei diversi Tribunali speciali istituiti più volte nel corso degli anni (come il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, istituito con la risoluzione 827 del 25 maggio 1993 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, istituito con la risoluzione 955 dell’8 novembre 1994 del Consiglio di sicurezza ONU) e oggi è in via permanente esercitata dalla Corte Penale Internazionale – dall’ipotesi in cui il processo si svolga nell’ambito del medesimo Stato nazione in cui l’accusato ha esercitato le sue funzioni e poteri.
In secondo luogo, direttamente connessa a questa prima distinzione, è la necessità di differenziare le tipologie di crimini o di illeciti per cui sottoporre a processo i vertici di uno Stato posto che tali giudizi possono riguardare i crimini contro l’umanità – come, ad esempio, il genocidio – o illeciti, per così dire, di “minore gravità” e comunque più direttamente commessi all’esercizio dei poteri politici tipici della carica rivestita – si pensi, ad esempio, a fatti di corruzione o a brogli elettorali o più in generale ad abusi di vario genere frequente espressione del potere politico.
Pur se non unanime, ormai è decisamente consolidata – quanto meno nella cultura occidentale – la conclusione che imperativi morali ed etici impongono di processare i vertici politici quando gli stessi si siano macchiati di crimini “imprescrittibili” per la loro gravità e disumanità, così come pare indiscusso che tali processi debbono svolgersi in sede sovranazionale in quanto la devastante portata di questi comportamenti criminali ne giustifica il perseguimento e la punizione al di là dei confini nazionali e del territorio in cui i delitti sono stati commessi – superandosi così il principio, un tempo ineludibile e ritenuto insuperabile, del carattere nazionale del diritto penale.
Non possono nascondersi le critiche e le perplessità che sono avanzate nei confronti di questa forma di giustizia sovranazionale – basti pensare alla circostanza che il trattato istitutivo della Corte penale internazionale non è stato sottoscritto da importati stati nazionali come la Russia o gli Stati Uniti o alla critica che frequentemente viene avanzata nei confronti di quella che secondo alcuni è la giustizia dei vincitori che riscrivono la storia ai danni dei vinti, condannandoli per crimini che sono tali solo perché commessi da chi ha perso il conflitto, ma al contempo queste criticità non scalfiscono quella che è una acquisizione che risale addirittura all’immediato dopoguerra, quando il Tribunale di Norimberga venne istituito proprio per accertare, in una sede appunto svincolata dal criterio territoriale, i crimini dei gerarchi nazisti (e come è in questi giorni ribadito con l’emanazione da parte della Corte penale internazionale di un mandato di arresto nei confronti di Putin: per quanto è presumibile che tale decisione difficilmente troverà attuazione, la sua adozione è espressione di quella legittimità della C.P.I. di cui si è detto).
Nemmeno particolari polemiche si registrano nel caso in cui crimini di una tale gravità sono giudicati in sede “interna”, in sede nazionale ovvero all’interno ed ad opera degli organi giurisdizionali operanti nello stesso stato nazione ai cui vertici operavano i soggetti sottoposti a processo.
Si pensi alla vicenda di Alberto Fujimori, presidente del Perù dal 28 luglio 1990 al 17 novembre 2000 ed in seguito condannato per crimini contro l’umanità tra cui la sterilizzazione forzata di centinaia di migliaia di donne indigene e per essere stato il mandante di uccisioni extragiudiziali avvenute per mano dell’esercito durante il conflitto interno peruviano contro il gruppo terrorista e guerrigliero Sendero Luminoso, di ispirazione marxista-leninista e maoista, e altri movimenti affini. Fujimori è stato al vertice della nazione peruviana ed in relazione a tale ruolo è stato processato dai giudici della “sua nazione” per crimini commessi nell’esercizio della sua funzione politica: come in altri casi (si pensi alle considerazioni critiche mosse nei confronti dei processi penali che hanno visto protagonisti i vertici della D.D.R. per gli omicidi ai danni di chi cercava di fuggire nella Germania dell’Ovest), anche in questa circostanza qualcuno ha parlato di “giustizia dei vincitori” così come si è sostenuto che Fujimori è stato processato solo dopo essere stato sconfitto in sede elettorale, sicché la giustizia peruviana non ha mostrato una propria legittimazione in grado di contrapporsi al potere politico. Tutto vero, però quello che interessa rilevare in questa sede è che nessuno ha posto in discussione la possibilità per l’autorità giudiziaria di un paese di sottoporre a processo per crimini di assoluta gravità un soggetto che era stato ai vertici della nazione, sia pur dopo che lo stesso era cessato dalla carica.
I dubbi iniziano quando si prende in considerazione quando l’autorità giudiziaria nazionale intende processare un uomo politico per crimini direttamente connessi al suo ruolo, come, secondo quanto si è detto, brogli elettorali, corruzione, concussione, abuso d’ufficio, falso ecc.. E’ quanto, per l’appunto, si sta verificando negli Stati Uniti nella recente vicenda che vede coinvolto Donald Trump o quanto si è verificato per oltre 10 anni in Italia con riferimento al virulento conflitto fra la magistratura e Silvio Berlusconi.
Ed allora in questi casi, la giustizia può processare la politica?
Certo che sì, verrebbe da dire ed anzi la sola domanda pare provocatoria posto che il principio di uguaglianza impone che nessuno possa sottrarsi alle conseguenze delle sue azioni illecite. Certo, ragioni di opportunità che possono portare ad adottare una disciplina particolare e diversa da quella ordinariamente prevista quando sono i vertici di un paese siano ad essere sottoposti a processo penale – è quanto si verifica con riferimento, ad esempio al Presidente della Repubblica o per gli organi di governo, il cui giudizio è riservato ad organi diversi da quelli che appartengono alla giustizia ordinaria -, così come può essere previsto che tali soggetti non rispondano in relazione a determinati comportamenti – come, ad esempio, prevede l’art. 90 della Costituzione con riferimento alla posizione del Presidente della Repubblica il quale “non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione” o come previsto per le guarentigie richiamate dall’art. 68 Cost. per i parlamentari che “non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” e non possono essere sottoposti a perquisizione personale o domiciliare, o essere arrestati o altrimenti privati della libertà personale, o mantenuti in detenzione, o essere destinatari di operazioni di intercettazione senza autorizzazione della Camera di appartenenza.
Al di là di queste specifiche condizioni o ipotesi, però, in nessun Paese e tanto meno in Italia, si ipotizza che vi possano essere ragioni per sottrarre i vertici politici o i titolari di alte funzioni amministrative da un accertamento delle loro responsabilità penali proprio perché una tale conclusione è un diretto precipitato del principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e del principio di legalità che deve informare tutti i comportamento dei titolari delle alte funzioni politiche ed amministrative della nazione.
Ma se così è, se queste considerazioni sono corrette, allora occorre domandarsi il perché delle polemiche che hanno investito il Procuratore di New York o i diversi giudici milanesi che hanno investigato e giudicato Silvio Berlusconi.
Potrebbe sostenersi che tali polemiche non devono sorprendere, essendo, per così dire, una conseguenza naturale quando la giustizia incontra la politica. Il processo penale, quando ha ad oggetto il comportamento dei vertici dello Stato, rischia inevitabilmente di condizionare lo scontro elettorale, modificandone gli esiti, sicché pare assolutamente ovvio che chi è accusato cerchi – magari perché privo di altre ragioni… – di dimostrare la parzialità dell’accusatore, la strumentalizzazione delle imputazioni mossegli.
Tuttavia, questa considerazione non pare colga il segno o almeno non è così inevitabile l’insorgere di violente polemiche ogni qualvolta la giustizia penale diriga la sua attenzione verso un politico. A sconfessare le superiori conclusioni basterebbe considerare la sorte dell’ex presidente Sarkozy che, dopo esser cessato dalla carica, è stato più volte processato e condannato per fatti di corruzione, senza che in Francia nessuno sollevasse dubbi significativi sulla legittimità dell’accuse e sulla correttezza dell’operato dei magistrati transalpini. Stessa reazione ha avuto l’opinione pubblica tedesca quando si accertò che la CDU diretta all’epoca da Helmut Kohl aveva ricevuto fondi in maniera irregolare nella piena consapevolezza di quest’ultimo: nonostante l’indubbio ed indiscusso spessore politico di Kohl immediatamente si discusse non dell’eventuale utilizzo strumentale della giustizia per fini politici ma si insistette per accertare nell’ambito giudiziario le effettive responsabilità dell’eminente politico tedesco.
Ed allora perché questo non si sta verificando in America e ormai da anni non si riscontra in Italia, dove l’aggressione alla professionalità dei giudici, la messa in dubbio della loro imparzialità rappresenta una costante di ogni processo che veda coinvolti esponenti politici?
A nostro parere, quello che sta venendo meno nel nostro paese e negli Stati Uniti è l’esistenza dell’indispensabile patto repubblicano inteso come piattaforma condivisa di valori e credenze fondamentali, in assenza delle quali è impossibile la vita in comune all’interno di una nazione, anche in assenza delle quali può dirsi venga meno anche l’esistenza dello Stato nazionale.
Di tali fondamenti dello Stato nazionale non può non far parte il riconoscimento di uno spazio neutro di decisione, uno spazio in cui – al di là delle opinioni personali del singolo, evidentemente impossibili da eliminare – le decisioni sono assunte sulla base di dati oggettivi, delle indicazioni fornite dalla norma – pur se quest’ultima è evidentemente filtrata dalle interpretazioni del singolo.
Nelle moderne democrazie, i protagonisti di questo “spazio neutro”, questa “isola della ragione” rispetto alle passioni delle politiche sono e devono essere i titolari della funzione giudiziaria. Nelle loro decisioni, i giudici esprimono e danno concretezza alla volontà della legge e quindi rispettare le loro pronunce significa prestare ossequio alla volontà generale espressa nel dato normativo.
Certo, ci possono essere situazioni in cui le sentenze o le scelte degli appartenenti all’autorità giudiziaria possono far dubitare della correttezza di questa conclusione ed in tali casi è senz’altro corretto sottoporre a critica tali comportamenti. Occorre però essere consapevoli della portata potenzialmente devastante di queste censure e soprattutto avanzare questi giudizi negativi solo quando si è in grado di supportarli con prove concrete, con elementi in grado di evidenziare come la condotta del singolo magistrato sia condizionata da pregiudizi o diretta a condizionare l’esito della lotta politica.
Tuttavia, quando tali elementi oggettivi manchino, il politico, la politica deve essere in grado di arrestarsi nelle sue critiche, deve saper rispettare quello spazio di indipendenza, di oggettività che è proprio della magistratura: ogni parte politica deve saper accettare il verdetto della giustizia, cercando di evitare sì di subirne le conseguenze nella fase elettorale – avanzando in quella sede proposte concorrenziali con quelli degli altri partiti, evidenziando come la decisione dei giudici non pregiudichi la validità del proprio programma per il paese -, ma non può difendersi dall’accuse cercando la delegittimazione della magistratura, perché ciò si traduce in una sconfessione di uno del pilastri della democrazia.
Cosa può accadere se questo auspicio non si realizza, non dobbiamo immaginarlo, ma semplicemente richiamarlo alla memoria, perché lo abbiamo già visto… il 6 gennaio 2021 nell’assalto a Capitol Hill. Dopo la sconfessione della magistratura c’è poi il disconoscimento dell’esito elettorale e poi del luogo della democrazia.
Ciro Santoriello