
Rispetto dei ruoli costituzionali, impegno di ogni Esecutivo – Il rischio del caos, a meno che non si ipotizzi una nuova forma di Governo – Mattarella garante dei principi fondamentali della Repubblica
Le turbolenze che hanno caratterizzato – al di là dei contenuti – l’attività del primo periodo di vita del Governo Meloni inducono a riprendere in mano la geografia costituzionale delle principali cariche Istituzionali del nostro Paese.
Seguendo una chiara e ben determinata logica, la Costituzione disciplina, nell’ordine, il ruolo e il funzionamento del Parlamento, del Presidente della Repubblica e poi del Governo (per proseguire con l’ordinamento della Magistratura e, infine, delle Regioni, delle Province e dei Comuni); il tutto, bens’intende, dopo avere sancito e regolato i diritti fondamentali dell’individuo, a cui sono protesi e asserviti i compiti delle Istituzioni.
Nell’impostazione costituzionale, che già dall’indice rispecchia l’importanza e l’ordine gerarchico dei valori delle materie trattate, non è un caso che la centralità dell’individuo sfoci nel primato del Parlamento che, sotto il controllo vigile del Presidente della Repubblica, scandisce i tempi ed i contenuti della politica, tramite l’azione legislativa e, soprattutto, confermando o negando la fiducia al Governo chiamato a darvi attuazione.
Un ruolo centrale (pur se da taluno trascurato) è affidato al Presidente della Repubblica che, dall’alto della sua posizione di custode della Costituzione e dell’unità nazionale, esercita compiti di impulso e di controllo (anche) sull’operato del Parlamento e del Governo. Nel caso in cui fosse impossibilitato ad esercitare le sue funzioni, può farne le veci la seconda carica istituzionale del Paese, il Presidente del Senato.
Al Presidente del Consiglio spetta un compito quanto mai delicato e fondamentale: da un lato, è chiamato a farsi interprete delle esigenze del Paese, a cui deve fornire risposte coerenti con l’attuazione del programma sul quale ha ottenuto la fiducia delle Camere, pur senza travalicarne le competenze; dall’altro, deve mantenere l’unità di indirizzo politico del Governo anche di fronte al mutare degli scenari di
riferimento.
In questo gioco di equilibri, è fondamentale che ciascuno degli attori abbia a mente i confini entro i quali può espandere la propria azione, non solo per garantire il rispetto dell’assetto costituzionale vigente (il che non è poca cosa); ma anche per consentire, tanto nel breve quanto nel lungo termine, il raggiungimento degli obbiettivi che ciascun parlamentare ha indicato nel programma sul quale ha ottenuto il mandato degli elettori. Detto altrimenti: se il Parlamento abdicasse al compito di elaborare un programma politico; o se il Governo si discostasse liberamente dal quel programma; oppure se il Presidente della Repubblica – o il suo vicario – tralasciassero di farsi garanti delle regole sulle quali si regge l’assetto costituzionale vigente, il nostro Paese finirebbe nel caos. Salvo ipotizzare di essere di fronte ad un mutamento della forma di governo: il che, entro certi limiti, è sempre possibile, ma richiederebbe il necessario coinvolgimento dei cittadini.
Dunque, tornando alle pagine di cronaca, il primo periodo di vita del Governo Meloni ci ha posto di fronte ad alcuni eventi che, al di là del merito delle decisioni assunte, inducono ad alcune riflessioni proprio partendo dalle dinamiche disegnate dalla Costituzione per regolare la vita politica del nostro Paese.
Il primo è rappresentato dal ritorno in auge del progetto di liberalizzare l’uso del denaro contante (o, per meglio dire, di innalzare così tanto le soglie di riferimento da poterlo considerare sostanzialmente liberalizzato). Se ne è nuovamente parlato in occasione dell’approvazione del c.d. “decreto aiuti quater”, che, nel progetto iniziale (con tanto di annuncio in conferenza stampa), avrebbe dovuto contenere anche l’innalzamento del tetto per l’uso del contante sino a cinque (o, addirittura, dieci) mila euro. Tuttavia, nonostante i comunicati, il testo del decreto approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 novembre non contiene questa innovazione che, verosimilmente, dovrebbe essere inserita nella “legge di bilancio”.
Ciò che colpisce, peraltro (al di là del dibattito circa il rapporto esistente tra questo strumento di regolazione dell’uso del contante e la lotta all’evasione), è che, di fronte al silenzio del Parlamento, lo “stop” sia arrivato dal Presidente della Repubblica, che, nell’esercizio del ruolo di garante della costituzione che gli compete, ha evidenziato la mancanza dei requisiti di necessità e urgenza (che invece caratterizzavano le materie inserite del decreto aiuti) che avrebbero dovuto consentire al Governo di
intervenire su questa materia con la decretazione d’urgenza; tanto più, considerando che l’entrata in vigore dell’efficacia delle nuove regole avrebbe dovuto essere rinviata al primo gennaio 2023.
Un’altra occasione in cui il Presidente della Repubblica ha esercitato un’evidente opera di moral suasion è quella che ha riguardato la definizione – tuttora in fase di discussione – della regolamentazione della (perdurante) stagione pandemica: alle dichiarazioni con cui il neo-Ministro della salute Schillacci ha reso noto di voler procedere ad un generale allentamento delle misure in atto in ambito sanitario ed al reintegro dei medici no-vax sospesi, hanno fatto eco le parole del Presidente Mattarella che, a fronte del silenzio del Parlamento, ha ricordato l’importanza di mantenere alta l’attenzione verso una problematica non ancora risolta e che è stata sinora contrastata solo con l’impegno della scienza e con il rispetto delle regole da parte di tutti.
In ogni caso, la vicenda che ha destato maggiori perplessità – sia per la complessità delle questioni trattate, sia per le tensioni che ne sono derivate, sia sul fronte interno, sia nei rapporti con la Francia e con l’UE – è quella legata ai migranti trasportati dalla Ocean Viking.
A scanso d’equivoci, è doveroso non sovrapporre il dramma umanitario che si consuma nei nostri mari (le cui riflessioni esulano e debordano dai confini di queste poche righe) con le problematiche connesse ai rapporti tra le principali cariche del nostro Paese e tra queste e le omologhe Autorità francesi: mentre rispetto alla tragicità delle prime è evidente l’urgenza di trovare una soluzione reale e condivisa, le seconde destano perplessità (e meritano di essere ricondotte) sul piano delle dinamiche istituzionali che le hanno caratterizzate. È sotto gli occhi di tutti, infatti, l’anomalia (pur se non dissimile da quella già sperimentata, sempre nei rapporti con la Francia, ai tempi del Ministro Di Maio) che ha caratterizzato il “doppio binario” delle comunicazioni intessute con Emmanuel Macron: mentre la Presidente Giorgia Meloni attaccava l’omologo francese, si svolgeva un dialogo via filo tra quest’ultimo e il Presidente Mattarella, da cui è scaturito, a distanza di qualche giorno, un comunicato congiunto con cui si è affermata l’importanza della relazione tra i due Paesi, condividendo la necessità di porre in atto condizioni di piena collaborazione in ogni settore, sia in ambito bilaterale, sia in seno all’Unione Europea.
Da quello che è dato comprendere (o ipotizzare) sembrerebbe essersi trattato del tentativo del Quirinale di porre rimedio ad una frattura che, oltre a non aiutare i migranti “imprigionati” sulla Ocean Vicking, rischiava di compromettere il sistema delle relazioni internazionali e gli impegni assunti con (e tramite) l’UE anche dal nostro Paese, ancora una volta senza la necessaria mediazione politica del Parlamento.
In questo contesto di (reale o apparente) confusione dei messaggi provenienti dai vertici istituzionali di riferimento, si è inserita la presa di posizione del Presidente del Senato, che, di fatto, pur non discostandosi apertamente dall’operato del Presidente Mattarella, ha elogiato la line dura imboccata dal Presidente del Consiglio. Al di là dei contenuti di questa presa di posizione (di certo diversa da quella che il protocollo costituzionale avrebbe indotto ad attendersi dal vicario del Presidente della Repubblica), non è chiaro se la stessa rappresenti il pensiero personale del Senatore che l’ha espressa oppure quella del ramo del Parlamento che egli presiede. E la differenza è molta, soprattutto se si considera che la frattura (reale o apparente) tra Capo del Governo e Presidente della Repubblica si è consumata nel sostanziale silenzio del Parlamento.
Per vero, gli esempi della distanza che separa questo momento storico dal protocollo costituzionale sono molteplici: basti pensare alle fughe in avanti (o comunque apparentemente tali) compiute su vari temi della politica dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matto Salvini; oppure alle tensioni che, a periodi alterni, contrappongono la Presidente Meloni a Silvio Berlusconi, senza giungere ad un chiarimento istituzionale in Parlamento.
A ben riflettere, di fronte a queste “turbolenze” (o intemperanze), al di là del merito delle decisioni concretamente assunte (che dovranno essere valutate dopo averne compreso e soppesato la portata complessiva), a costituire motivo di riflessione, da un lato, è l’eventualità che le stesse, a lungo andare, possano minare la tenuta della legislatura, costringendo il Paese a farsi carico di nuove elezioni anticipate; dall’altro, è che possano, in verità, rappresentare delle consapevoli insofferenze verso il protocollo costituzionale che dovrebbe regolare il dialogo e la cooperazione tra le principali cariche dello Stato, lasciando intravvedere, sullo sfondo, la volontà di cambiarne l’impostazione.
Ovviamente, tutto è possibile ed è presto per capire quale sia la lettura corretta dei sintomi che si colgono nell’osservare questi primi giorni della nuova Legislatura. L’unica cosa certa è l’immutabilità dell’ordine costituzionale dei valori, alla cui sommità è posto il bene della Nazione e degli individui che la compongono, rispetto ai quali non sempre l’intervento (di rottura o di riflessione) del Presidente della Repubblica è sufficiente e possibile per garantirne la tutela.
Un esempio per tutti: l’introduzione del reato balzato all’onore delle cronache come norma che vieta i rave party. Con un tratto di penna è stata prevista la reclusione da tre a sei anni e la multa da 1.000 e 10.000 euro per chiunque organizza o promuove l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica, allo scopo di organizzare un raduno, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta. Si tratta di una innovazione che, pur sollevando seri e fondati dubbi di costituzionalità (basti pensare all’evidente indeterminatezza che la caratterizza e all’entità della pena prevista, anche per i “semplici” partecipanti al raduno) non ha potuto essere bloccata dall’opera vigile del Presidente Mattarella e che, essendo stata effettuata con lo strumento della decretazione d’urgenza, è stata – almeno per il momento – sottratta al dibattito parlamentare.
È ben vero che, a seguito della levata di scudi dell’accademia e dell’avvocatura, il Parlamento ha programmato una serie di audizioni di esperti indicati dalle varie aree politiche; ma è altrettanto vero che, ancora una volta, ci si è trovati di fronte ad un intervento del Governo che avrebbe richiesto di essere maggiormente meditato e ricondotto nell’alveo del dibattito istituzionale o, più semplicemente, nel dialogo parlamentare.
V’è da sperare, dunque, che, qualunque siano le ragioni di queste intemperanze, la Politica sappia contenerne la portata rispetto dei diritti fondamentali di tutti.
Maurizio Riverditi