
Significativo l’esperimento realizzato in due piazze di Torino da uno studente universitario e una scrittrice – Forti i condizionamenti psicologici e fisici – Quei fili che legano l’anima – I commenti dei passanti
Una donna al centro di una piazza. Le mani e i piedi legati con dei fili bianchi. Al capo di ciascun filo una figura completamente vestita di nero, il viso coperto da una maschera bianca e inespressiva. È questa la rappresentazione portata in piazza
Carignano e in piazza San Carlo a inizio marzo per manifestare contro la violenza strutturale sulle donne.
Si tratta di quella forma di oppressione esercitata dalla struttura sociale e da alcune istituzioni (la scuola, l’Università, ecc.) sulle donne più fragili. Essa non ha un volto, non è riconducibile a un unico soggetto e sembra invisibile: la compongono piccole azioni quotidiane di negligenza.
Questo concetto è stato elaborato nel 2000 dal medico Paul Farmer in relazione alla disparità di accesso alle cure mediche riscontrata tra le diverse classi sociali della popolazione di Haiti. Celebre l’esempio dei due ospedali: quello gratuito era affollatissimo, quello con cure a pagamento era deserto. La manifestazione nelle due piazze di Torino, organizzata dal sottoscritto, studente dell’università di Torino e Claudia Burbulea scrittrice, aveva l’obiettivo di rendere visibile questa “mano” invisibile. I passanti sono stati invitati a saperne di più attraverso un QR code posto sulle schiene delle figure mascherate: alcuni si sono mostrati interessati, altri (più di quanto si immagini) sono passati oltre commentando con frasi sessiste (“si sa che le donne hanno una testa un po’ bizzarra”).
“I fili della struttura politico-sociale in cui viviamo legano e condizionano fortemente le donne più fragili, era spiegato nel testo di presentazione, perché la violenza si manifesta in molti modi. E’ violenza, sostengono i manifestanti – attendere il compimento dei 18 anni per avere un passaporto senza l’assenso dei genitori; ma puoi essere sottoposta a violenza, anche tra i muri di casa, soprattutto se si è più giovani. È violenza essere costretta a lavorare per 10 ore in un magazzino anche se una ragazza ha il ciclo mestruale, e non si sente bene, è violenza lavorare per intascare appena 2,70 € l’ora.
Oggi, purtroppo gran parte della società è espressione di violenza. È una forma di violenza ostacolare una donna nel processo di denuncia per stupro. È violenza spendere centinaia di euro per i ticket sanitari. È violento un medico obiettore. È violenza pagare 3 mila euro per abortire. È violenza essere costretta a sostenere un test di ammissione per l’università con la flebo al braccio perché la società non concede a una ragazza nemmeno il tempo per essere malata”.
Maltrattamenti tanto invisibili quanto dannosi, che si nascondono anche nelle strutture apparentemente più inclusive e paritarie, come l’Università. Si pensi, per avere una prima idea, a quanto ancora si faccia fatica vedere una “Professoressa Ordinaria” (secondo il “Sole 24 ore” nel 2021 erano 2.952 in tutta Italia a fronte di 12.303 “Prof. Ordinari”; sui docenti associati/e non si va lontano: 7.575 donne, 19.676 uomini). Ma questo è noto da tempo.
Si pensi alla presenza di organizzazioni neofasciste nell’Albo delle commissioni studentesche di Ateneo, come il “Fuan” di Torino. La loro presenza si traduce in discriminazioni e propagazione di una cultura maschilista e aggressiva, come hanno dimostrato gli adesivi omo-lesbo-bi-transfobici comparsi all’Università a inizio anno.
A macchia d’olio, tra l’altro, la violenza derivata dalla mancata espulsione del Fuan (e dal silenzio dell’università) si è espansa, pochi giorni fa, all’ingresso della Polizia al Campus Einaudi, che ha scortato i militanti di estrema destra.
S’è detto dell’indisposizione cui sono soggette le donne. Anche soltanto 5 giorni senza riuscire a concentrarsi possono essere cruciali in sessione d’esami. Se a questo si aggiungono tutte le ore di lavoro domestico che tante ragazze svolgono per la propria famiglia, la violenza è ancor più evidente.
Da ultimo, si pensi al silenzio collettivo di tutta la struttura universitaria (studenti, professori, personale ecc.) di fronte a stalking, commenti e molestie sessuali.
Un esempio vissuto in prima persona da chi scrive: lezione in aula, divagazione del professore sull’importanza di utilizzare gli strumenti online, battuta ironica per alleggerire: “Certo, un po’ mi è dispiaciuto ricevere sempre via Webex, perché qualche studentessa era anche carina e avrei voluto conoscerla di persona…e chissà. Risate.
Sandro Marotta