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Sanità italiana, duro colpo della pandemia ad un sistema profondamente inadeguato

By 18/05/2022No Comments

Cresce l’insofferenza dei cittadini di fronte all’incapacità della classe dirigenziale di elevare il livello organizzativo dei ospedali –
I progressi tecnologici mai compensati da un maggior impiego di risorse finanziarie – Il Piemonte corre i rischi maggiori – Non basta sollevare problemi, bisogna risolverli

La pandemia ha rappresentato uno sconvolgimento delle attività non solo perché ha ridefinito le priorità ma ha messo in evidenza le carenze di un sistema fermo a riforme datate e di cui non si sono ancora concretizzati i provvedimenti attuativi.
La spesa sanitaria è progressivamente cresciuta sia in termini nominali (in vent’anni è aumentata del 70%, con una battuta d’arresto nel triennio 2010-2013) che reali (al netto dell’inflazione) sia in rapporto al PIL (anche se questo risulta fortemente condizionato dall’andamento del denominatore) e senza contare i deficit nascosti nei bilanci regionali e aziendali, specie quelli dove il cambio di maggioranze politiche o del vertice aziendale ha comportato una maggiore rincorsa al consenso: eppure il messaggio percepito dalla popolazione è di un continuo ridimensionamento. Per capire l’apparente contraddizione bisogna considerare il progressivo invecchiamento della popolazione (per offrire gli stessi servizi ad una popolazione più anziana, ma numericamente in crescita, inevitabilmente cresce la spesa solo per mantenere gli stessi livelli) e i progressi tecnologici che tendenzialmente richiedono un maggior impiego di risorse.
L’esplodere della pandemia, spostando l’attenzione dalla salute individuale a quella collettiva, ha indotto a dirottare ingenti risorse per fronteggiare l’emergenza, commettendo inevitabilmente errori: la paura ha portato ad immagazzinare dispositivi di protezione rinunciando a ricercare soluzioni flessibili ed adattabili (ad esempio dei magazzini virtuali basati sulla capacità di programmazione). Inevitabilmente tutte le altre attività sono passate in secondo piano, sia perché effettivamente diminuite (come, ad esempio, le fratture di femore negli anziani o gli incidenti stradali) sia per l’impossibilità di perseguire programmi di prevenzione e screening. Il futuro ci dirà se queste attività erano di scarsa efficacia oppure la sanità dovrà affrontare l’insorgere di una domanda sanitaria dai risvolti imprevedibili.
Le informazioni per contrastare il virus si sono mosse in un contesto globalizzato ma le soluzioni si sono dovute adattare ai contesti locali (mentre a Pechino si persegue il contagio zero a Stoccolma si è perseguito il “laissez-faire”) accentando la confusione generata dai virologi, spinti verso una sovraesposizione mediatica.
Le argomentazioni scientifiche si sono trasformate in occasioni di polemica, finendo per accrescere il senso di sfiducia tra gli utenti: nonostante gli innegabili progressi raggiunti dal mondo sanitario, si registra una crescita degli episodi di violenza contro il personale sanitario, costretto spesso a non operare in condizioni ideali. Proprio quando si vivono fasi di insicurezza, maggiore è il bisogno di sentirsi protetti e di sapere che un’organizzazione provvede, in caso di necessità, alla difesa del singolo e della società. Il constatare come un soggetto reagisca in modo diverso, se non contrapposto, davanti agli stessi input, induce a pensare ad una profonda carenza dell’azione di educazione sanitaria finora perseguita.
L’epidemia ha portato alla luce contraddizioni che da tempo si celavano nell’ambiente sanitario e la sempre minore incisività nell’influire sui processi: l’Italia, dei 20 sistemi sanitari differenti (con il Piemonte che tra le Regioni del nord è quella che corre maggiori rischi di ricadere nel Piano di Rientro), è anche il Paese più burocratizzato d’Europa e in alcuni passaggi, in primis nei pronto soccorsi, si ha l’impressione che siano più i controllori che i controllati. L’aspirazione sempre più generalizzata è quella di non occupare posizioni rischiose, ma di entrare nell’alveo di quelli che sollevano problemi: è questa la conseguenza di un sistema sempre più soffocato dal giogo burocratico che non riesce a spostare l’attenzione dall’interpretare norme (problema risiedente in ambito giuridico) al valutare le conseguenze che queste generano (di competenza delle scienze economiche e sociali). Non a caso l’Italia è tra i primi posti nell’indagine campionaria condotta da Eurobarometro (Commissione europea) sulla complessità delle procedure amministrative, mentre è tra gli ultimi se si esamina la crescita della produttività (dati Ocse).
Queste problematiche non sembrano trovare adeguato spazio nel post lockdown dove, anche nella stesura degli obiettivi, si cerca un ritorno al 2019, come se la pandemia non fosse esistita. Ad essere cambiate sono sia le condizioni operative per cui le stesse pratiche richiedono tempi e quindi costi significativamente diversi, causa il rispetto delle misure di protezione da adottare (comunque sempre utili e dall’alto rapporto “risorse impegnate-benefici ottenuti”, anche in assenza di paure immanenti), sia l’atteggiamento di una parte di popolazione che dimostra preoccupanti forme di scetticismo nei confronti delle politiche sanitarie, compromettendo la stessa azione sanitaria.
Le nuove sfide imporrebbero una consolidata capacità di governo mentre l’attenzione alla formazione di una classe dirigente, diversamente da altri paesi (si pensi all’ENA- École nationale d’administration o ai corsi di laurea in Scienza della salute organizzati dalle Università inglesi), non è stata affrontata con collimante decisione. Ciò non ha permesso di capitalizzare la presenza di soluzioni alternative a livello regionale con attività di benchmark, mettendo sistematicamente a confronto le conseguenze delle soluzioni adottate in una logica esperienzale di what-if.
Le differenze, riscontrabili anche tra le varie aziende sanitarie, operanti nella stessa regione, sono notevoli e andrebbero esaminate (anche solo confrontando il consumo di D.P.I. Dispositivi di Protezione Individuale, all’interno degli ospedali, si registrano oscillazioni non sempre spiegabili), non con anni di ritardo poiché ciò renderebbe inefficace l’adozione di eventuali azioni correttive senza aiutare ad individuare un management qualificato che continua ad essere scelto non sempre in base ai risultati raggiunti.
La pandemia ha coinvolto tutta la società, ma soprattutto le strutture sanitarie hanno dovuto sopportare l’impatto maggiore posponendo tutti gli altri obiettivi di fronte alla gravità della crisi, destinando anche strutture di alta specializzazione ad affrontare l’emergenza. Ad essere sacrificate sono state soprattutto le attività di ricerca (già da sempre cenerentola nel panorama sanitario italiano), le attività sanitarie programmate e la prevenzione della patologie cronico-degenerative, la cui non apparente urgenza le porta ad essere trascurate. Le attività di ricerca e di insegnamento non rappresentano un optional, ma il core business, per offrire servizi di qualità, recependo in modo tempestivo le innovazioni scientifiche, anzi contribuendo direttamente a determinarle soprattutto per quanto riguarda l’appropriatezza delle prescrizioni (ancora troppo soggiogate alla medicina difensiva e alla professionalità compartecipata) e la compliance (che dovrebbe portare il paziente a rimanere aderente alle prescrizioni, evitando così che il sistema si faccia carico degli interventi more expensive e poi trascuri di massimizzarne l’utilità). Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità esistono più relazioni comprovate tra il consumo eccessivo e inappropriato di un input e l’inefficacia dei risultati raggiunti (ad esempio l’uso degli antibiotici).
La pandemia ha sovvertito i parametri su cui si sviluppava il mondo sanitario obbligando a mettere in secondo piano l’approccio meccanicistico di diagnosi/prescrizione, per porre l’accento sulle attività preventive basate sul rapporto “individuo/sistema di cura”. L’abbuffata burocratica-consumistica, con cui si è pensato di superare la fase critica, denota l’incapacità del management sanitario a utilizzare le risorse disponibili, insabbiandosi in una serie di soluzioni contradditorie.
Con la globalizzazione si era pensato di risolvere i problemi trasferendoli ad un livello più alto, ma lo scoppio della pandemia ha riportato le singole collettività a doversi far carico dei problemi. Non si tratta solo di migliorare il funzionamento dei meccanismi momentaneamente “arrugginiti”, ma d’individuare nuovi paradigmi in grado di rispondere alle esigenze generali in rapporto alle risorse disponibili.
Sicuramente l’imprevedibilità della virulenza della pandemia ha portato a commettere errori, a distanza di due anni però preoccupa l’incapacità del sistema ai suoi vari livelli nel formulare progetti di riorganizzazione strutturali lasciando scoperti i punti nevralgici dei percorsi diagnostici-curativi-assistenziali.

Emanuele Davide Ruffino

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