
Molti gli effetti devastanti, morali, etici, economici, ambientali – La paura d’una carestia – Il “gioco” della (dis)informazione – Il fallimento dell’ONU e l’incapacità di garantire la pace
Il 24 febbraio ha avuto inizio una guerra destinata a segnare un’epoca, a modificare radicalmente il modo di pensare e di vivere il nostro povero mondo, già segnato e provato dalla pandemia. Proprio quando si cominciavano a intravvedere le luci della speranza di aver domato un virus che aveva messo a nudo l’illusoria fragilità della nostra convinzione di poter governare l’Universo (dando prova di come le regole dell’economia non siano in grado di reggere all’impatto della paura della morte e dell’imponderabile, che costituiscono l’essenza della nostra condizione umana), l’attacco sferrato dalla Russia all’Ucraina ci ha posti di fronte ad una prova ancora più inquietante e difficile da superare. Doveva trattarsi, secondo i pronostici e la logica comune, di una guerra-lampo, destinata a consacrare, nell’arco di pochi giorni o poche settimane, la vittoria di una Superpotenza, esaltandone le doti militari e strategiche. Un ennesimo, inquietante, rigurgito di ferocia umana, ricordo di epoche passate, che in poco tempo avrebbe dovuto consentirci di riprendere una normalità attesa dall’inizio del 2020, lasciando ai politici e alla diplomazia il compito di circoscriverne gli effetti.
Invece, contro ogni previsione, dopo oltre 100 giorni siamo ancora qui a leggere di violenze inaudite, di attacchi che sembrano non finire mai, di città cadute nelle mani dei soldati russi e poi nuovamente liberate, con lo sfondo di uno scenario apocalittico da guerra nucleare. Da guerra-lampo si è passati ad una logorante e preoccupante guerra di resistenza, i cui effetti sembrano paragonabili ad un’onda, destinata a travolgere le convinzioni sulle quali riposava la nostra fiducia nelle armi dell’intelligenza, della diplomazia e degli equilibri di una società che ritenevamo avesse imparato dagli errori (e dagli orrori) del passato. Col trascorrere dei giorni, ognuna di queste credenze sembra destinata ad essere spazzata via, per lasciare spazio alla risecca generata dal vuoto delle domande a cui non siamo capaci a dare risposte.
Sono domande che interessano il ruolo delle Organizzazioni, delle Istituzioni internazionali e dell’Unione Europea; che toccano il destino delle politiche di sviluppo di intere Nazioni e la tutela dell’ambiente; che provengono dal mondo dell’economia e degli imprenditori, incapaci di fare programmi di ripresa.
Ed è sorprendente che l’impossibilità di fare previsioni e di fornire risposte dipende non solo dalla destabilizzante forza dirompente della guerra, ma anche dagli effetti inaspettati e imprevisti che questa ha prodotto e dalle contraddizioni che ha evidenziato: da un lato, assistiamo impotenti all’orrore dei civili straziati e dei bambini deportati e, dall’altro, registriamo il fallimento dell’ONU e della sua capacità di garantire la Pace; mentre si gettano le basi dell’odio e del rancore nel cuore delle popolazioni devastate da un dramma destinato a non finire con gli accordi diplomatici, sono sempre più forti i segnali di rafforzamento del ruolo dell’Europa sulla scena mondiale e della coesione tra i Paesi della NATO; mentre gli scenari di guerra ci vengono raccontati in tempo reale, siamo consapevoli che la (dis)informazione è uno dei più potenti strumenti con cui questo conflitto (come altri) viene combattuto; pur se dal 24 febbraio le nostre giornate sono ormai pervase da un’inevitabile senso di paura e insicurezza, l’impotenza e l’incapacità di comprendere le ragioni della follia che pervade la scelta di morte che vi ha dato inizio, ci obbligano ad illuderci di poterci estraniare nella nostra quotidianità, fingendo di essere immuni alle sorti dell’umanità.
Tutto questo sconvolgimento è inevitabilmente destinato a produrre nuovi equilibri, di cui prenderemo piena consapevolezza solo quando potranno essere analizzati e compresi con il dovuto distacco. È la storia ad insegnarcelo. La lezione del passato ci pone di fronte anche ad un altro insegnamento: nel momento in cui l’onda del cambiamento si ingrossa, far finta che nulla stia succedendo non solo è inutile, ma può essere anche pericoloso. Se, dunque, è difficile fare previsioni e programmi, dobbiamo essere capaci non solo di comprendere la drammaticità del presente, ma anche di essere pronti a governare i segni del cambiamento a cui non possiamo sottrarci. Gli esempi sono molti e differenti: dalle ripercussioni sul mondo del lavoro e della finanza, alle ricadute psicologiche che questo produce; dall’esigenza di ricostruire le logiche dell’accoglienza dei popoli colpiti dalla guerra, alla necessità di ripensare al modo di gestire le risorse e le ricchezze di cui ogni Paese dispone; dall’emergenza climatica, alla riorganizzazione dei valori e delle regole che devono governare lo sviluppo economico.
L’imponenza di queste sfide e l’apparente distanza della nostra quotidianità non sono sufficienti a giustificare la nostra indifferenza rispetto alla necessità di farcene carico. Il primo passo, forse, potrebbe essere non solo far cessare l’esasperata insensibilità verso i bisogni del prossimo, a cui ci stiamo abituando, ma anche di invertire la tendenza al disinteresse verso la politica, responsabilizzando chi ci governa col peso di una presenza che impone dialogo e confronto e, anzitutto, partecipazione collettiva costante.
Non c’è dubbio che anche questa sia una sfida importante; ma di fronte all’onda che avanza abbiamo due scelte: provare a saltare per infrangerla e rimanerne fuori, oppure sdraiarci sperando che ci passi sopra senza travolgerci; sforzarci, con un colpo di reni, di seguire un obbiettivo, o lasciarci trasportare con un senso di fatalistica resa. Al reflusso dell’onda sapremo qual era la risposta giusta.
Maurizio Riverditi