
Lucida analisi del prof. Enrico Grosso, Ordinario di Diritto Costituzionale all’ Università di Torino sulle forme di presidenzialismo – “Sono tante e si adeguano pericolosamente a contesti politici diversi”
Dall’inizio della nuova legislatura si è fatto insistente, in Italia, il dibattito sull’opportunità di introdurre nel nostro Paese il presidenzialismo. Ma di cosa parliamo, davvero, quando parliamo di “presidenzialismo”?
La parola è sommamente vaga e generica, meramente evocativa, spesso utilizzata in termini rozzamente ideologici. Dietro a quella parola si celano modelli di organizzazione politica molto diversi tra loro, talvolta neppure compatibili con la forma di stato democratico-costituzionale.
Si parla indifferentemente di presidenzialismo con riferimento al sistema politico degli Stati Uniti d’America, come a quello di “democrature” come la Russia e molte repubbliche ex-sovietiche. Sono presidenzialisti i regimi della maggior parte dei paesi dell’America Latina, ma il termine è usato talvolta (in realtà a sproposito) anche per designare la forma di governo francese. L’aggettivo viene accomunato a sistemi di salda tradizione costituzionale come l’Austria e il Portogallo, così come a regimi ad assai discutibile vocazione democratica come l’Egitto e la maggior parte dei Paesi dell’Africa subsahariana.
Il fatto è che la parola presidenzialismo può assumere significati assai diversi a seconda dei contesti. Se essa si riferisce alla previsione che il Capo dello Stato sia eletto direttamente dai cittadini, tale particolare è talmente marginale rispetto alla dinamica e al funzionamento complessivo della forma di governo, da risultare del tutto privo di qualunque funzione connotativa. Sono eletti direttamente molti presidenti di repubbliche che riconoscono il principio della centralità della funzione democratico-rappresentativa del Parlamento, così come molti capi di regimi semi-dittatoriali. Il fatto è che il funzionamento della forma di governo, ossia il modo in cui complessivamente sono organizzati dalla Costituzione i rapporti tra i soggetti titolari di potere politico, dipende da una combinazione di fattori diversi, di cui il criterio di designazione del Capo dello Stato, o del Capo del governo, costituisce una sola delle molte variabili.
Altre variabili altrettanto importanti sono il rapporto che si instaura tra società civile e politica, quello tra governo e Parlamento, il sistema elettorale con cui vengono eletti i componenti di quest’ultimo, il sistema dei partiti che concretamente quell’assetto di poteri esprime, non da ultimo il sistema dei contro-poteri (di ordine contromaggioritario) che a sua volta la Costituzione prevede a tutela delle minoranze politiche e sociali. Per questo è opportuno fare un po’ d’ordine.
Cominciamo col dire che, nel diritto costituzionale, il termine “presidenzialismo” evoca una specifica forma di governo, quella fissata dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1787. In tale contesto, l’elezione a suffragio universale diretto del Presidente si accompagna all’attribuzione al Presidente (e solo a lui) del potere esecutivo. Vi è una completa separazione tra quest’ultimo e il potere legislativo, che non dipendono l’uno dall’altro e godono entrambi di legittimazione popolare. L’investitura popolare fa del Presidente un organo in una posizione di costante dualismo politico (e dunque di potenziale conflitto politico) con il Parlamento. Non esiste infatti un rapporto fiduciario tra i due organi, in grado di istituire, nei momenti di contrasto, una ben precisa gerarchia e di garantire così alle crisi che periodicamente si manifestano un punto di caduta chiaro sul piano costituzionale.
Per questa ragione, si tratta di un modello fragile e assai pericoloso, che infatti – per unanime opinione dei costituzionalisti – ha funzionato, in contesti democratici, soltanto negli Stati Uniti d’America, e soltanto in virtù delle particolarissime condizioni sociali, culturali e istituzionali di quel Paese. Il presidenzialismo “all’americana” ha bisogno di un tessuto istituzionale assai saldo, all’interno di un sistema sociale a sua volta stabilizzato. Negli Stati Uniti esistono da sempre fortissimi contrappesi che hanno fino ad oggi consentito di contrastare efficacemente le (ricorrenti) tentazioni verso l’esautoramento della rappresentanza parlamentare e l’accentramento dei poteri nelle mani del Presidente, e che hanno da ultimo letteralmente “salvato” la democrazia americana in occasione del tentativo di colpo di stato perpetrato dai più oltranzisti seguaci di Donald Trump nell’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021.
La presenza di una cultura autenticamente federale, che depotenzia “naturalmente” i rischi di accentramento, l’accentuata tendenza della società americana al “self government” e all’autonomia delle singole comunità locali, l’esistenza in Costituzione di ben precisi “freni e contrappesi” al potere presidenziale, la presenza – in particolare – di un potere giudiziario autenticamente indipendente da qualsiasi influenza politica e provvisto di indiscusso prestigio, sono tutti elementi che hanno consentito agli Usa di superare indenni le prove più difficili che oltre due secoli di vita costituzionale hanno loro offerto, e di continuare, nonostante i recenti scricchiolii, a rappresentare un modello di democrazia liberale per il mondo intero. Fino ad oggi, negli altri luoghi in cui si è provato a introdurre una forma di governo ad imitazione di quella americana (come in alcuni paesi dell’America Latina, dell’Africa o dell’Europa orientale) presto o tardi il presidenzialismo è degenerato in forme di più o meno incontrollata dittatura del Presidente, da cui con fatica e a prezzo di immani sofferenze quei paesi si sono – talvolta – tirati fuori.
Ciò che deve essere chiaro, comunque, è che la forma di governo presidenziale all’americana non consiste – semplicisticamente – nell’elezione diretta del Presidente. Peraltro, tale ultima caratteristica accomuna gli Stati Uniti a molti altri ordinamenti, nei quali tuttavia il Presidente non è l’incarnazione “solitaria” del potere esecutivo, ma mantiene il ruolo di “Capo dello Stato” in un contesto dove, accanto a lui, opera un governo collegiale, composto di ministri e guidato da un primo ministro.
È probabilmente a questo secondo modello che guardano, sia pure in modo spesso assai approssimativo, coloro che oggi, in Italia, propongono l’introduzione del “presidenzialismo”. Anche qui, però, qualche avvertenza è d’obbligo.
Il modello principale cui si fa riferimento quando si evoca l’elezione a suffragio universale diretto del Presidente (della Repubblica) nel contesto di un sistema istituzionale in cui il governo continua ad essere un organo collegiale guidato da un Primo Ministro è quello francese. La forma di governo transalpina, tuttavia, è a tutti gli effetti parlamentare, nel senso che il governo (organo collegiale guidato dal primo ministro) deve avere la fiducia del Parlamento (a differenza della forma di governo presidenziale all’americana, nella quale il rapporto tra Presidente e Congresso è di completa separazione e indipendenza). Il governo sfiduciato dal Parlamento, in Francia, deve dimettersi (esattamente come in Italia), e con lui il Primo Ministro. Non il Presidente, il quale – essendo stato eletto a suffragio universale diretto – resta in carica per tutta la durata del mandato anche se la maggioranza politica che controlla il Parlamento gli è ostile.
Ciò che ha fino ad oggi reso stabile (o, quantomeno, più stabile di altre) la forma di governo francese non è comunque l’elezione presidenziale, quanto piuttosto l’articolazione del sistema politico-parlamentare, che poggia su un sistema elettorale uninominale maggioritario a doppio turno e che nella maggior parte dei casi ha potuto contare su una sostanziale omogeneità di indirizzo politico tra la maggioranza parlamentare e il Presidente. Quando però la maggioranza parlamentare è ostile al Presidente (o quando – come a seguito delle elezioni politiche del 2022 – il Presidente non può contare su una maggioranza in tutto o in parte “amica”) le debolezze e le fragilità del sistema francese emergono in tutta la loro evidenza. Come ogni forma di governo dualistica (ossia fondata sulla doppia legittimazione democratica), essa è esposta a periodiche crisi di sistema. Perché, in tutti i sistemi dualistici, i casi sono due: o vi è omogeneità politica tra i due organi (il che, in contesti democratici, non è predeterminabile, dal momento che nessuno può impedire agli elettori di esprimere un voto presidenziale politicamente divergente rispetto a quello parlamentare), oppure si creerà inevitabilmente tra di loro un conflitto politico strisciante, capace di indebolire progressivamente le istituzioni.
È esattamente ciò che sta accadendo oggi in Francia, dove il secondo mandato di Emmanuel Macron sta mostrando (proprio per l’assenza di una solida maggioranza parlamentare a lui omogenea) preoccupanti segni di fragilità e debolezza. L’evocazione di questa forma di presidenzialismo costituisce, nell’Italia di oggi, una evidente e preoccupante scorciatoia. Nello stato di evidente crisi in cui sembra essere calato negli ultimi anni il nostro sistema politico e istituzionale, l’introduzione dell’elezione diretta dal Capo dello Stato rischia infatti di accentuarne le fragilità.
La crisi costituzionale in cui l’Italia da troppo tempo si dibatte investe il paradigma stesso della democrazia come si è andato consolidando nel costituzionalismo del secondo Novecento. Non siamo di fronte a una crisi congiunturale del sistema politico, purtroppo. Le difficoltà attuali del Parlamento – terreno fertile per la diffusione di tentazioni “presidenzialistiche” – sono lo specchio di un fenomeno più complessivo, che investe la rappresentanza politica, i processi decisionali e i loro tempi, ancor più in generale il rapporto tra cittadini e istituzioni e tra istituzioni e realtà dei processi sociali ed economici nell’attuale fase della parabola delle democrazie mature.
In parole povere, i sistemi parlamentari sono in crisi – e non certo solo in Italia – perché è in crisi il modello di democrazia che è stato edificato nel secondo dopoguerra. La democrazia costituzionale nata dalle macerie della seconda guerra mondiale si fondava e si manteneva in vita grazie all’esistenza di partiti e di altri corpi intermedi, che esistevano indipendentemente dalle “forme democratiche” definite dalle Costituzioni, i quali erano fortemente organizzati e capaci di esercitare il ruolo di “cinghia di trasmissione” tra società e politica, nel senso che erano – contemporaneamente – rappresentativi di grandi istanze popolari (e dunque collettori e “mediatizzatori” di quelle istanze), ma anche capaci di rappresentare agli occhi dei cittadini modelli di società in cui questi ultimi effettivamente si rispecchiavano.
In tale contesto, qualsiasi forma di governo avrebbe potuto funzionare senza rischiare di mettere in crisi la struttura intrinsecamente democratica delle istituzioni. Perché quella struttura era garantita dall’esistenza e dalla vivacità del reticolo di corpi intermedi che operavano nella società, contribuendo alla risoluzione pacifica dei conflitti e alla conservazione del contesto pluralistico garantito dalla Costituzione.
Oggi tale contesto si è completamente sfarinato. La crisi irreversibile di quel modello di organizzazione politica e sociale, che ha attraversato trasversalmente – sia pure non del tutto omogeneamente – tutte le democrazie mature nell’ultimo trentennio, non ha potuto che produrre effetti negativi – in parte irreversibili – anche sul rapporto tra cittadini e istituzioni democratiche, e sulla rappresentazione che i primi avevano elaborato delle seconde. Oggi è sempre più difficile catturare ed esprimere la complessità delle relazioni sociali, che sono tornate ad essere pericolosamente conflittuali. E la politica – che non sa più governare il conflitto con gli strumenti tradizionali che dovrebbero esserle propri – è dunque tentata di intraprendere la scorciatoia dell’illusione semplificatrice.
Fa parte di questa illusione la fuga verso l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che viene presentata come l’investitura del leader capace dei porre fine alle incertezze e alle divisioni. Se intesa in questi termini, la proposta è ingenua, perché la complessità esiste anche a dispetto di chi pretende di nasconderla agli occhi del “popolo”: se i corpi intermedi sono oggi in crisi ciò non significa che i bisogni e le istanze di cui essi erano portatori non siano ancora alla base del funzionamento concreto delle relazioni sociali. Le società avanzate sono complesse, perché complessi sono i problemi che esse si trovano ad affrontare. E non sarà l’investitura popolare del “capo” ad eliminarli.
Per non parlare delle insidie più propriamente “istituzionali” che si celano dietro a tale proposta. Come si spiegava prima, la forma di governo si compone di una combinazione di molti elementi, il cui delicato equilibrio, disciplinato dalla Costituzione, garantisce la corretta limitazione del potere e la garanzia che esso non si faccia “tiranno”. Invece, l’ideologia che sembra ispirare l’iniziativa semplificatrice alla base della proposta “presidenziale” propugna in modo assai esplicito la esatta corrispondenza tra principio democratico e “fatto maggioritario”, e pretende di conseguenza di mettere non solo la politica, ma la stessa Costituzione, “a disposizione” della contingente maggioranza, guidata da un “capo”, che si presume legittimata dal voto popolare a esercitare un potere senza limiti. È un’idea di politica (e anche di Costituzione) come conquista, affidata – ogni tanto – all’ordalia del rito elettorale. Una cultura politica efficacemente riassunta da una frase pronunciata, non moltissimi anni, fa da Gianfranco Miglio, inquietante e vagamente minacciosa ma tuttavia troppo presto archiviata come il prodotto di innocuo folklore proto-leghista. Miglio, dopo aver affermato con piglio rozzamente “decisionista” che «la costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti», così concludeva: «Il mio sogno è che la metà più uno degli italiani facciano la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze».
Ecco, l’idea che la metà più uno degli Italiani possa eleggere, ogni cinque anni, un “capo” che la governi, senza contropoteri, senza intermediazioni, senza un tessuto di corpi collettivi riflessivi, senza “stanze di compensazione” in grado di mitigare e incanalare il conflitto sociale che caratterizza inevitabilmente la contemporaneità, è quanto di più lontano si possa immaginare dallo spirito del costituzionalismo moderno.
Il compito principale assegnato alle Costituzioni nello Stato costituzionale ereditato dal Novecento non è la difesa del principio democratico inteso come mera (e rozza) applicazione del principio di maggioranza, bensì piuttosto la tutela del pluralismo politico e sociale di cui la società è portatrice. Non è quindi avvallando ulteriori derive maggioritarie, né promuovendo ulteriori semplificazioni, che verranno rimossi i più seri fattori di crisi della nostra democrazia.
Con un’aggravante: di fronte a istituzioni inceppate, di fronte a una società lacerata e polarizzata, sempre più difficile da “rappresentare” (e sempre più lontana dalle urne), di fronte a partiti politici in crisi di identità, di prestigio e di legittimazione, in conflitto perenne tra loro e sempre più incapaci di decidere, di fronte alle evidenti difficoltà in cui da anni si dibatte il nostro sistema di governo, su un’istituzione l’Italia ha sempre potuto contare, aggrappandovisi nei momenti più bui: il Presidente della Repubblica, chiamato – proprio per il fatto di non essere eletto a suffragio universale e dunque di non essere direttamente coinvolto nel circuito dell’indirizzo politico – a supplire alle carenze della politica, a rimettere in moto il motore inceppato, a sciogliere i contrasti più rovinosi, a garantire, con la sua figura imparziale, la continuità delle istituzioni democratiche nei momenti più acuti della crisi. Se ci giochiamo questa possibilità, se cioè ci priviamo dell’unico potere davvero “neutro” (nel senso di istituzionalmente estraneo alle dispute politiche quotidiane e per tale ragione capace di esercitare una funzione arbitrale nei momenti di bisogno), se in altre parole carichiamo la figura del Presidente della Repubblica dell’inevitabile connotazione partigiana che gli deriverebbe dall’elezione diretta, non faremo un buon servizio a un Paese che di tutto ha bisogno, meno che di perdere una delle poche istituzioni capaci, negli ultimi anni, di produrre integrazione e coesione sociale.
Trasformare il Presidente della Repubblica nel capo di una fazione politica significherebbe – in un Paese come l’Italia in cui l’accentuata conflittualità politica da sempre produce frammentazione, instabilità e periodiche crisi di sistema – privarsi dell’unica figura istituzionale capace di far ripartire il sistema inceppato. Fino ad oggi, a rimuovere i ceppi e a consentire alla democrazia italiana di riprendere il cammino, ci ha pensato il Presidente della Repubblica. Egli ha potuto farlo proprio perché non era eletto direttamente da qualcuno, contro qualcun altro, ma rappresentava davvero “l’unità nazionale” al di là delle inevitabili divisioni politiche. Chi ci penserebbe domani?
La strisciante crisi costituzionale nella quale l’Italia è immersa da anni richiede piuttosto il potenziamento e il rafforzamento di tutti quei luoghi neutrali grazie ai quali è possibile moderare la brutalità del «fait majoritaire», del puro esercizio del potere che sta progressivamente sgretolando il normale funzionamento dei meccanismi democratici. L’obiettivo non può che essere quello di ricostruire uno spazio pubblico collettivo condiviso, entro il quale le normali contrapposizioni politiche non si trasformino in distruttive guerre civili.
L’Italia non ha davvero bisogno di presidenzializzare la sua forma di governo. Ha invece bisogno di rafforzare il ruolo neutro e di garanzia del Presidente della Repubblica, assegnandogli tutt’al più nuove funzioni che esplicitino e rafforzino il suo ruolo arbitrale, e magari riformandone le modalità di elezione parlamentare (con l’innalzamento dei relativi quorum) allo scopo di scongiurare il rischio che essa possa essere espressione della sola scelta partigiana di una maggioranza politica contingente. Altro che elezione diretta!
Enrico Grosso