
Nell’ultimo libro di Padre Francesco Occhetta “Le radici della giustizia” l’insegnamento oltre il simbolo della spada e della bilancia – Dare la possibilità a chi sbaglia di comprendere il proprio dolore, inizio di ogni incontro con il dolore delle vittime
Il disegno legge del Guardasigilli Nordio recante “modifiche al Codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare” che il Presidente Mattarella ha rimandato alle Camere non fanno che confermare quanto il tema della Giustizia sia divisivo.
Giustizia rovente, Meloni parla a Nordio perché Tajani intenda.
Questo il titolo dell’articolo di Simone Canettieri su Il Foglio del 20 luglio scorso, articolo che ben racconta dello scontro non solo tra diverse visioni sul tema, ma del delicato gioco degli specchi che si cela dietro le dichiarazioni di uno o dell’altro esponente della compagine di governo o della maggioranza.
In questo clima di (finta?) baruffa si staglia, per la lucida capacità di analisi e la lungimiranza delle tesi sostenute, l’ultimo libro del padre gesuita Francesco Occhetta, Le radici della giustizia, vie per risolvere i conflitti personali e sociali (Edizioni San Paolo).
Un libro, quello del segretario generale della Fondazione Vaticana Fratelli tutti che affronta, guardandolo da diverse angolature, il tema giustizia: un argomento ostico, foriero di problemi per chi – governi compresi – cerca di affrontarlo in modo serio. La cultura della giustizia sembra immersa in una terra desolata, quella del non senso e della paura.
Solo la giustizia può, secondo padre Occhetta, restituire dignità agli uomini e alle donne e creare condizioni per un nuovo modello di sviluppo umano integrale.
Come emerge dal libro, se andiamo a leggere gli ultimi rapporti del Censis sulla situazione sociale dell’Italia, emerge che il 90% degli intervistati ha dichiarato di sentirsi triste, che è consapevole di subire ingiustizie ma sceglie consapevolmente di rimanere passivo: solo un colpo d’ala sociale può mettere al centro del discorso pubblico il tema della giustizia per gestire la denatalità e la longevità, la crisi della famiglia e l’ondata di emigrazione italiana verso altri Paesi. Investire sulla giustizia a livello sociale significa riaffermare un grande sì alla vita per custodire le politiche sociali del Paese e per ripensare gli stili di vita oggi basati sul consumo e sulla solitudine.
La giustizia è davvero la cartina al tornasole per valutare qualità e la vita di governi e democrazie: se dovessimo fare nostra la massima di Voltaire “non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” ci sarebbe da preoccuparsi seriamente.
La lunghezza dei processi, l’imporsi di forme di giornalismo giustizialista e la situazione in cui versa il sistema carcerario italiano sono tra le conseguenze di un modello di giustizia in crisi. Custos quid de nocte? Soldato a che punto è la notte? viene da chiedersi.
Il volume, ricco di riferimenti culturali ma anche statistici ci dà, nelle sue prime pagine, la risposta. In Italia un processo civile dura in media 8 anni: 514 giorni per ottenere, in media, una sentenza di primo grado, quasi 1.000 per una di secondo grado e 1.442 per l’ultimo grado di giudizio. In Europa un processo termina entro due anni: bastano 233 giorni per una sentenza di primo grado, 244 in secondo grado e 238 in ultima istanza. La durata media di un processo penale in primo grado è di 779 giorni a cui vanno aggiunti quello delle indagini preliminari che, in media, è di quasi un anno. I processi definiti in ultima istanza in Cassazione hanno una durata complessiva tra il secondo e il terzo grado di giudizio, di oltre quattro anni di cui tre per il solo secondo grado. La media europea è di 138 giorni per ottenere una sentenza di primo grado, 143 per il secondo e 143 per ultima istanza.
In Italia ci sono 379 avvocati ogni 100.000 abitanti: gli avvocati della Francia non superano quelli della città di Roma. Il 35% dei detenuti è composto da persone in stato di custodia cautelare prima del giudizio definitivo che nel 99% dei casi si conclude con il loro proscioglimento: nel 2020 lo Stato ha pagato 37 milioni di euro di risarcimento a causa di ingiustizia detenzione.
Il nostro Paese ha circa 52 mila detenuti: il 73% ha meno di 39 anni, il 45% è straniero, solo l’1% ha una laurea. Negli ultimi 20 anni sono morti nelle nostre carceri 3741 detenuti, di questi 1.298 si sono suicidati (84 nel solo 2022). L’80% dei detenuti nelle carceri italiane ha una patologia. Sono 73 mila le persone che nel 2022 hanno scontato pene alternative al carcere, ossia affidamento in prova, detenzione domiciliare, semilibertà anche se dei 154 euro al giorno che ogni detenuto costa al nostro Paese solo 35 centesimi sono spesi per la riabilitazione. Esiste, quindi, un modo diverso per realizzare la giustizia, si domanda e ci chiede padre Occhetta.
È possibile passare dall’immagine classica di Dike, la figlia di Zeus e Temi, raffigurata con spada e bilancia, che riferisce a Zeus le colpe degli uomini e procura loro del male perché, per via di esse, lei viene offesa a quella del Lorenzetti – l’allegoria del Buon Governo – in cui la giustizia è raffigurata come una donna seduta su un trono, vive in comunione con altre virtù, aderisce alla verità viene ispirata dalla sapienza, a sua volta, è la condizione per la vita sociale? La risposta è, senza alcun dubbio, sì.
Per rifondare la giustizia occorre una conversione culturale che contrapponga alla visione retributiva quella riparativa. È necessario però rispondere a una domanda fondamentale: cosa può essere fatto per riparare il danno?
Per padre Occhetta la riparazione include qualcosa in più della rieducazione, scommette su una ricostruzione di relazione a partire da una restituzione causata dal reato, è come il lievito che fermenta la pasta del diritto.
La giustizia, per la tradizione giudaico cristiana, ma non solo, è ricomporre le relazioni che si rompono. La cultura giapponese educa a rimettere insieme i pezzi delle ceramiche che si sono rotte usando una mistura di lacca e oro in polvere. Attraverso la tecnica del kintsugi le relazioni che si ricompongono acquistano un valore ancora più alto di quelle mai spezzate: sono tenute assieme dall’oro, segno dell’investimento sull’umanità fragile, sulla memoria delle relazioni spezzate e sulla volontà di raccogliere i cocci e ricomporli.
La riabilitazione del detenuto e il significato della pena sono possibili a una condizione: rimettere al centro il dolore della vittima e i suoi familiari nella consapevolezza, come dice padre Vittorio Trani, cappellano da 45 anni nel carcere di Regina Coeli, che per chi sta dall’altra parte, per chi ha commesso il reato non esiste persona dinanzi alla quale non si possa tracciare una strada e che non senta la nostalgia di percorrerla: basta stare vicino e toccare le corde giuste.
Il percorso ha un punto di partenza molto chiaro: la spiritualità.
Come si può leggere nel volume le più importanti esperienze di giustizia riparativa nel mondo – dall’india al Brasile, dagli Stati Uniti all’Italia – partono e passano attraverso lo sviluppo di percorsi interiori che mettono al centro il rapporto con Dio, con l’Assoluto.
Solo così si può sviluppare quel dialogo, tra chi ha commesso il reato e chi lo ha subito, tra il detenuto e gli operatori che lavorano nel carcere, che è la base della giustizia riparativa.
Come ha detto Padre Mario Picech – anch’egli Gesuita, vice cappellano a San Vittore e per molti anni cappellano in diverse carceri di massima sicurezza del Messico – l’immagine della giustizia è l’immagine dello sguardo. Quello sguardo che non fa sentire soli. Consapevoli che si diventa giusti (o si ridiventa giusti) compiendo atti giusti.
Ci potrebbe essere un atto più giusto di quello di una riforma della giustizia che sappia dare speranza a tutti? Soprattutto ai più deboli? Soprattutto agli assetati di giustizia? Il mondo si regge sulla giustizia, la verità e la pace. Così recita una massima della Mishnah. Così si chiude il libro di padre Occhetta. Un libro che chi vuole approfondire l’argomento riforma della giustizia dovrebbe leggere e fare suo.
Alessandro Battaglino